bon voyage

Oggi mi sei mancata,
oggi non ho parlato.
Sono stato da un cinese muto, pioveva:
la piazza d’immondizie,
la tromba delle scale fumava, ancora. Oggi,
non ho detto parola, tutto il dì,
se non con uno che aveva bisogno, un ballerino, e
questo silenzio è forzatura – mi sei
mancata per il tuo appiattire le labbra
lasciarlo fare a me
e così far andare il giorno. Come un sentiero
un prato bagnato, il lago del parco e
i suoi uccelli scomposti. Che bel pomeriggio, allora. Partiremo,
non vedendole, le spalle. Viaggeremo,
come spazi in una mano aperta,
le scale bagnate di pioggia,
come perline colorate
venute giù, a ventaglio, stelle rimosse e
da un filo riposte al loro ordine
musicale.
Oggi, mi sei mancata: sto contando gli
elementi di un piccolo insieme
ma ce n’è sempre un altro, più grande
sopra di me,
lontano da noi.

Temporale

Sono annebbiato: devo ammetterlo. Almeno in questo momento
su questo divano, con le gambe lunghe:
ho pensato a Eva, che ha un bel sorriso,
ho pensato a Alfredo, che ha un bel piglio,
ho pensato a Giada,
forte, sola (?),
quelli a cui – quelli di cui. Ho pensato che non
ho più casa. E questo un po’ mi ha lasciato
come pesca aperta, del giorno prima,
come due o tre cicche che puzzano un po’,
il raccoglitore dei giornali vicino
alla sedia a dondolo con riviste che
non ho mai letto.
Sono un po’ annebbiato, devo ammertelo, come
devo ammettere che non ha prezzo bere
whiskey e fumare
davanti a una finistra spalancata oltre le tegole
e il buio,
le luci della piazza di fronte: soffuse e ammiccanti,
dolenti dolci note,
di notte ripiene, di sbavature à la Rimmel, nel momento prima di
colar via, come fossero miele.
Mi sono detto: puzzo. Arriverà il caldo
e non userò più quelle coperte. Là, nell’armadio (le vedo). Mi sono detto: sogno.
Sono al penultimo battito
annebbiato
ma ancora non dormo. Ho pensato anche ad Anna, un’Anna,
così piena di vita di voglia, di gente. Ci sono troppe pagine da scrivere
ci sono troppe canzoni,
decisamente ancora troppe
(propositivo, voglioso, lanciato)
ancora da leggere.

because i feel blind

la colonna sonora ideale di questa è: http://www.youtube.com/watch?v=PpX4fJsiS1U&feature=fvst
—-

Semplicemente, così:

come un mobilio rozzo e morso, sto mandando in
frantumi – sganasciate – i contatti della mia
piccola testa.
Sono chips indescrivibili
dita con unghie troppo lunghe che provano a suonare ma
proprio non
proprio non
e allora blind blind
blind
Sono così pronto a
impacchettarvi,
lacci e lacciuoli,
contatti innestati e incrostati
giocattoli fermi nella sabbia
incrostazioni bavose sul delimitare di una
tazza da té.
Volti e sguardi;
cioccolatini scivolati in tasca;
cenni di mano e doveri
sulla soglia del prossimo
turno. Fanculo.
blind, blind – Mi ci affaccio:
dall’alto di un’orecchia
mozza, scorgo nel buco un gran
vuoto, ed è nero
nero, mobilio che vola,
schiaffi di carte
odore
di prugna
cibo & sesso, occhio chiuso
di giovane donna.
Mi rigiro, torco, urlo: ___________
(ma questo è indescrivibile
incomputabile,
mio).
Vorrei, quindi, ora, sull’orlo di questa mia arca
solo brillare,
vedermi nei tuoi occhi,
fiume,
e fare come un altro,
l’impermeabile stanco, ciabatta e tabacco
roso inferno dal vento,
sedermi

o meglio, accudirmi,
accucciarmi,
e aspettare________________
_____________onde e riflessi_____
corpi che non posso neanche
vedere_________________
_______________because I’m blind
I’m blind.

Cullato dal vuoto della mia testa
e rincuorato dal fumo.

– Definitely
blind.

sostanze


Tra la gomma, il suo scolo e l’asfalto;
il bosco, l’occhio e la foglia. Tra le tue
dita fini, e il mio seno. La tastiera,
le briciole di una brioche, e
una telecamera di traverso.
La scrivania appoggiata
contro il muro.
Tutte le cose in ordine, tutte, come un pezzo
di legno composto pressato: prova a tagliarlo,
prova a scomporlo. E’ solo
finzione.
Tra le zampe, il filo dell’alta
tensione
e il suo scendere in volo. Mentre piove e le
case paiono pan carré inzuppati, il cielo
coperto, Mon Dieu: tra il sorriso
l’attesa e il bacio sfiorato.
Ci sono non-spazi, incompiute relazioni
attese di microgrammo. E una volta
si va di qua, una volta di là, una volta
sono analisi incomprensibili di malattie incurabili
una volta è
tenerti per mano, questi uccelli che volano
e il lago.
Tra un palo, la mia macchina e l’abisso. Tra
progetti, azioni, e tlack
tlack, che si incastrano
tra noi, un po’ qua, un
po’ più in là.

Una cicca a forma di cola (o Cronaca del mattino)


a fab.
le tue mani sono protese nel vuoto, oltre il letto,
è così che ti svegli, stai suonando il piano
della loro follia con corde di carta
e dita lunghe, scordate, mangiate. una delle cose più belle di me
è veglia, con la testa che pulsa, un
primo conato di vomito come un neonato.
una delle cose, è quella spinta, la testa di
tartaruga, quella che bussa quando sei ancora rannicchiato
come al riparo, fa capolino la sua testa tenera
marrone con due occhietti, tu fetus scomposto. una delle cose
è alzare la tazza e derubricare il mondo
con imponente voluttà di
due chili di merda. E la testa gira ancora.
Hai un canale secco, un solco tracciato di lama, nel petto
al posto del tuo esofago, che
sta lì senza speranza d’acqua in una giornata
in cui pure i suoi occhi sembrerebbero
acini secchi, ma lei non ha mai avuto
una melanconia così. O quasi. Una delle cose più belle di me
sta tra i miei tronchi, in una matrice tra i miei peli,
le ciglia, le unghie, humus e pallini di cotone nella
pancia, una delle cose più belle di me, sono
io per intero nudo davanti allo specchio deforme, bianco
come un foglio elettronico
stropicciato da molte attenzioni e profonde
astensioni. Aria! Via tutti: maledetti! Spiritual : Ho un amico
che se preso per mano per gola per dose,
rivela scopre denuda coupe de
theatre la vostra vera natura di vero imbecille. Ingoi tre pillole. Torni
nel letto. Puzza e lo sai, lo sai quanto puzza
stare, essere odiando, posizionato nel mondo
come un attore convinto che siano gli altri,
a recitare. Quelle loro impomatature! Hai un altro conato di vomito. Corpo ribelle e molliccio. Il treno è in arrivo.
La caffettiera spenta. La pattumiera
è fuori dalla porta e se ne va,
facendo pacchi scomposti col tuo vicino. Per terra: una cicca
a forma di cola
.
Ti alzi e hai dolori inspiegabili. Il polso: è storto. Fitte interne partono e
chissà. Lo zaino è già pronto e
una delle cose più belle di me
è mettere le scarpe, chiudere la porta, quella mia,
la tua, la nostra danza: chiuderla e
solo
scendere le scale. C’è un sole croccante
e un cielo così, una mutanda
stirata pulita, precisa, come solo mia madre sa
fare,
bella madre che roteando gli occhi fai il cielo,
potere di donna,
potere di odore e di suono, lo vedo,
dai balconi altrui, tra una fessura grigia e un’altra marrone, tra uno scalino
e una foglia umida stanca, un vaso che abbraccia la terra, la cosa più bella che c’è
è salire sulla mia bici, andare in stazione,
pedalare senza mai toccare il freno
essere conscio di
essere solo, in barba a chi dentro me
manifesta roco, con una certa postura,
per sostenere la precisa
volontà del contrario. Passo come l’ombra riflessa
sul muro scrostato e io sono
adesso.

I Bycicle

Sono come i miei pensieri
incatenati, le mie foglie che nascondono sole
ai germogli.
Con la sigaretta semi arrotolata guardo le catene
lungo un via lunga
come una treccia, che tieni ben stretta, tutta per te.
I palazzi intorno sono immobili alti
scenari,
io le so di colori diversi, di periodi diversi
di spazi che non si relazionano più,
molteplici gatti su comignoli coi nasi
all’insù, per diversi all’insù.
E senza ricordo, vorrei passare la mano
sulle loro selle di carta selle di pelle selle di marmo
scuro, chiedermi perchè e incrociare uno sguardo
slegarle e andare lontano.
Lontano, lontano,
ma qui seduto non le riconosco,
colori, grazielle immobili e rapidamente vecchie
come nuove canzoni.
Qualcuno passa veloce, uno scatto di
pedale e il vento tra i miei
quattro fili, me li sposta, ho un sussulto,
e poi torno a fumare con il mento
sulla mano chiusa. La siga è bruma
che brucia
tra le dita.

to see what condition my condition was in


Ho le gambe distese come linee bianche
di un’autostrada che tange
steppe mongole, cieli come fazzoletti che
carezzano cavalle sudate
al galoppo.
Sto con la testa all’indietro, dopo questo giorno
oh si oh yeah
di un bicchiere e un altro ancora,
come fossi il Grande Lebow – con le dita nel
cocktail o in altri umidi
labbiali
morbidi
incavi.
Niente può farmi male adesso
Niente può più,
Quando il tramonto trafigge la mia tapparella
e il panino è mezzo mangiato, la birra
una miniatura scrostata sul vetro, la polvere un gatto e vedo
stelle come calli al soffitto
parole come tip tap
caloriferi come chitarre elettriche poggiate
giusto poco più in là.
Una distanza di mano, di passo,
confortevolmente,
serenamente, lasciata.
Occhi chiusi, e vedo:
una donna, alta, che seni che fianchi, alla porta,
come si muove, gambe lunghe
che gambe: lei danza!
Questo salotto è il regno di dio
ed io posso anche ballarci insieme, col salotto con dio
con la birra con il mio culo sul divano
con un motivetto strano, un mp3 che salta
come un vinile, storto,
e con questa mia sorella alcolica
che alla porta mi sbatte in faccia la sua sensualità
porca, viola-nera,
malinconica.

gran guadagno


qualcuno più intelligente di me è
andato a correre. col suo giubbetto giallo e le
scarpe mimetiche, va su e giù per questa pianura di
lingue, anguille d’asfalto e cippi romani,
fiori negli angoli più bui e odore di fango, umido,
nel naso. lui sta smaltendo, loro,
con i rispettivi compagni, di letto e di ventura,
riescono a reggersi ai cordoni del ponte
che oscilla
e qualcuno
che meno ti aspetti
lo butta giù
senza deprimersi. Tagliano e mangiano briciole
con le dita, dal tavolo. A me basta un pensiero,

uno solo,
e sono a terra, sulle ginocchia, jeans sulla pelle matura
ancora graffia, come gengiva che perde
alimentando insenature di lingua.
Scorre bene, riempie i letti, fa onde
di vita salata.
I pali della luce, là fuori, sono ben piantati e pieni
d’acqua, loro.
Trasportano 10,000 volt e
non sanno di essere bombe
e potenziali infarti,
e crack mal tagliato, e strilli
e colpi epilettici,
emboli lussureggianti…
e finchè sarà così, Un Gran Guadagno:
ci sarà sempre qualcuno più leggero
meno idiota al palato, di me. Continueranno a correre
tenendosi per mano o da soli
scatarrando, non gustando,
chiazze rosse,
sulla linea bianca fragile
del confine.

consolazione in re bemolle


La più bella di Francia ha i canini aguzzi

dita lunghe, la pelle oliva, mosto schiacciato dai tasti
del piano, la più bella di Francia fa peti soffici
su cuscini morbidi, e donne dalle mani grasse cuciono
in Romania i suoi vezzi Piacenza.
I merletti, si dispongono lungo la via, che porta a Nova Huta,
sono neri, grigi come le ciminiere
e la polvere, e i fili, e i panni stesi: Krumiri e macchine scure:
fabbriche e ceneri tenere, si dispongono a raggiera
sui suoi polsi quasi metallo.
Non c’è nulla dietro allo sguardo
o un’intelligenza accecante, oh, mia Provincia, o
chissà, grandi passi consumati ancor prima d’arrivare al fondo
della via, passerella, e delle luci, camera operatoria, fuori è finito tutti fuori:
l’applausometro è scassato, arrugginito,
giallo incrostato.
Malika, non mi consoli,
sei solo un’anteprima un antipasto un abbondante
aperitivo scadente, con tanto ghiaccio nel negroni
e gnocchi e pane. Vorrei da te una donna che
mi sappia guardare in faccia per due minuti senza
sbadigliare o volermi
scopare, ma sei ancora un verso, un’Ikea,
un’altra consolazione
à la Litz.

giorni

i giorni che ho calcolato, i giorni che ho digitato

quelli che ho passato su facebook
le cartoline sul divano, a piegare i vestiti, le
sbornie sul ciotolato, i giorni come domeniche
che siamo così spaesati senza
profitti, tutti quei momenti in cui si andava a dormire troppo
in là, per alzarsi troppo presto, i giorni
così, i giorni della pancia gonfia, potevo passarli
a chiederti come, a farti dire,
a tirarti la coperta
a costruirmi un ricordo. Sai, come le presine, o
i guanti. Come uno scaffale,
una collezione.
Quei giorni di pasta e di carta, di beige e di blu,
sono tubature intasate, caloriferi
spenti, finestre aperte con le tegole a scendere,
brividi sotto pelle che indietro
ci si guarda
ma nulla più.