Oh! Ho questa cosa che mi balla tra la collottola e la vena sinusoidale del collo.
Qui, sul divano, davanti alla televisione scatola box.
E’ il moviemento gitano.
Me li ricordo.
Con il cielo bruma che si scuote pronto a venire giù, si preparano per iniziare la loro festa. Se ne stanno là, in una spiazzola ai margini di Torino, col cemento rotto, i cessi strabordanti merda, che cola in rivoli marron ghiacciati, e le loro sessanta roulotte. Loro stan lì, si guardano, si muovono, poi decidono così d’amblé dal nulla che è arrivato il momento.
Qualcuno, senza che tu te ne accorga, ha piazzato su uno stereo. In un angolo, attaccato a un generatore. E’ uno stereo di dimensioni spropositate, manco il Vasco al Delle Alpi, quello sì che era un concerto – tristesse. Fanno partire la musica e cominciano a ballare. Sguaiatamente, bocche aperte e braccia su e giù. Si incrociano. Uomini scuri e donne scure. Che zingaro, appunto, vuol dire “dalla pelle nera”. Hanno denti d’oro. Hanno vestiti che non lavano mai e gonne colorate, se camminanti, molto ampie e divertenti. Hanno, spesso, zoccoli e scarpe nere con le bolle. Sfondate sotto e bolle sopra e hanno, infine, barbe e baffi, d’ambo i generi, e sanno sempre d’odore di fritto pungente.
Pollo fritto patata fritta pasta fritta olio che cola in rivoli alla periferia di Torino, come merda marron.
Me li ricordo, e ricordo che quando ballano possono anche eccedere. E se bevono, che vuoi che sia, poi si scazzottano anche un po’. Ma non al Banus, no. Nel Lungo Stura Lazio.
Me li ricordo, questi zingaracci puzzoni. Bastardi! Qualcuno nei corsi formazione e lavoro, qualcuno a rubare, i bambini che alle cinque tornano dalle scuole della barriera di milano e i più piccoli che alle sette tornano, con le madri, dall’ombra della Mole.
Ah, ci fosse stato l’Antonelli. Regge estive, altro che campi.
La musica, si, il manele.
E l’ombra del Novotel alle spalle, che se fai foto solo in bianco e nero puoi farle.
E il cemento, rotto, quello posizionato dal Comune in quel campo un po’ legale e un po’ no, un po’ visto e un po’ meno. A due passi dalle enormi e gloriose centraline elettriche dell’Enel che mi ricordavano ronzanti Breznev e l’Unione Sovietica, Dio – quanto mi manchi, Unione Sovietica.
Centaline, ronzano, nel manele a mezz’aria, musica.
Zoccoli e ciociaria.
Cazzotti, baffi, pelle scura e braccia a incrocio. Un paio di mani che applaude.
E’ il movimiento gitano.
Me lo ricordo, là, in periferia a Torino, a due passi dall’imbocco della Torino Milano.
Devo, posso solo ricordarlo.
Perchè non c’è più, non c’è più nulla.
Un cartello immaginario a mezz’asta dice Sgomberato.
Io sgombero tu sgomberi egli sgambera.
E il manele che ronzava, ha lasciato il posto all’elettricità. Che dalle centraline sale, sale, riempe l’aria ad onde concentriche.
Onde diffuse.
Onde potenti sulla città.
Van su su nel cielo, toccano il punto più alto, e poi cascano giù.
Estremo fragore.
Su tutti noi. Che siamo ancora qui.
Ricordo quei balli, spengo il televisore, e non ci penso più.