sweetdreamers

nella foga di sfogliarle, le dita, 
di passarci attraverso e cucirci insieme i giorni
di leggerne il futuro tra le rughe 
che parlano di oggetti
che non hanno sfiorato mai:
immagini incorniciate di viaggi 
impreparati
post-it a puntellare percorsi
su Kartographie Freytag-Bernot unt Artaria,
fra immagini di Google
come il riflesso 
della foga della speranza.
Fuori tutto da questa finestra, 
ora,
fuori scrivania fuori incastri
fuori necessità.
Via le nostre cartoline dal muro
per rimetterci specchi che ci 
prendano per mano, brutti noi al mattino,
per dirci del nostro 
presente,
chiamarcelo, supino,
cullarci come su un’altalena che 
si muove o forse o non si muove
o entrambe.
Le gambe aperte sarebbero una v 
come scollatura sconcia 
sul tempo che deve venire
e di cui non ce ne importerebbe 
più niente…

rush

Prendere le mani carezzare i capelli, coperchio
sull’acqua che bolle, la pasta piegata, vestiti da buttare:
carte sparse e amore, fatto di rabbia,
film incastrati alla perfezione
tra le nove e mezza e le dieci, sveglia, uscire.

Le scarpe si stringono coi lacci agli
omini della polvere in attesa di
vedere le coperte sollevarsi e trovare albe nuove
ai piedi stanchi,
veloci, rapiti,
fare la spesa, abbracciarsi sul limitare
delle stanze, tra le porte, congiunzioni,
per poi ripartire, docce calde per bagnare
i capelli e gli impegni,

Ed è sul limitare del frigo che per caso tutto si ferma
sospende si tende
quando ci siamo incontrati
e non c’era più fretta, così, per caso soffice
e semplice,
dove ci siamo fatti fasciare
da questo nostro presente

Finestra, paesaggio, consolazione. L’amore
che va di fretta capita che inciampi
e si ripassi tra le labbra quello
che gli appartiene,
e per un istante ci giochi
senza guardare oltre la fine.

semplici

quante briciole può tenere 
la mia impronta digitale
quando la giro per farle cadere
e il loro moto scompagina
la luce del sole
attraverso,
questo corpo, questa mente,
con aperture che sono
rifrazioni immense
semplici come molliche di 
pane 
sparse qua è là sul tavolo scuro
dove è un continuo 
darsi da fare a prenderle
e lasciarle cadere.

GHOST!

ho visto ragni aracnofobici ballare con Thom York
una salsa 
e la salsa è sempre senza parole
appiccicata al muro come ∫˜ª e altri Fahrenheit simili
le macchine da scrivere che danno tutta un’altra impressione
alle lettere, 
la carta ruvida delle stazioni di posta, gli autogrill, 
le zanzare e i bassi nei woofer
notti di viaggio
tangenziali
ci stiamo tenendo per mano e scemando così 
lungo le creste non ruvide dei galli, rosse e gialle,
imbottiti come cuscini e coperte cucite a mano dalla mano
di una madre che abbandoniamo alle sue sere
tenute su come lo zaino sulle spalle di un barbone
che percorre le strane da Perpignan a Buenos Aires in cerca
di un equilibrio ferale:
ci stiamo tenendo per mano nel momento del risveglio
aggrappati con le bave all’ultimo sospiro del sogno
tra l’armadio che non è ancora verità e l’alito cattivo
il fantasma di un futuro che ci decidiamo 
a non comprendere, ora, qui,
girandoci come automi sui fianchi 
tendendo le braccia allargandoci
abbracciandoci 
e tornando io alle tue spalle tu al muro davanti
ad addormentarci…

della tua fisionomia

I tuoi confini non sono confini sono
terre straniere guardate a piè-spinto, frontiere:
i cori di ambulanze che tagliano in due paesi che sanno
di umido e pioppi, le piante bagnate,
raffreddate, i cani a blaterare sotto i coppi che la luna,
lei, abbraccia col suo alito enormemente giallo,
quel tuo viso,
così bambino fragile capriccioso
che si nasconde dietro le ante che sono fobie
e foibe, in cui ti getti a peso morto nei pomeriggi allungati alla spina e
chi-si-è-visto-si-è-visto, 
ma afferra: 
che ci sono altre
frontiere,
margini di miglioramento, 
frontiere in cui
ci alziamo, usciamo dai cassetti
pieghiamo gli armadi. Barcollando a dovere
nudi a dirigersi, andiamo, con le dita a
riempire i solchi del giorno, a unire i puntini dei buchi
lasciati sui muri,
mentre per fare colazione lasceremo le finestre 
spalancate a cerchi espansi di sole che
entreranno
roteeranno,
che sfioreranno 
le mie gambe una 
e una, 
e andranno poi a cadere su te come anelli
a vestire l’acquerello dolce 
della tua 
fisionomia.

sul seno del giorno in cui siamo

a Fab, Fra, Roby
dal palco un corpo è una esse, che si perde
in vocali di scena, da un lato è un baffo girato con
cura di mangiafuoco, da sotto il piercing
di una donna coi capelli corti e la schiena
cappotto di schiena, 
valigia di schiena
ricordo non dato imbastito rollato 
e passata-di-lingua
di schiena.
dal lato del bancone luccicante di brina c’è
un locale chiuso, lontano dai campi, dalle autostrade,
dalle freddure dei guardrail e le loro televisioni
accese: la notte, le luci dell’uomo come anfratti
di bocche aperte e richiuse
salivazioni,
attese,
Partiamo:
che da un giorno abbiamo appreso
 l’esigenza dell’ora,
da un tavolo un amuleto 
una penna
un’armonica un’africa 
un libro.
Partiamo,
 perchè è il nostro passo affermativo,
è il nostro poggiare 
le orecchie 
le mani
due dita 
sul suo morbido seno, 
e le labbra sul capezzolo 
del giorno in cui siamo. 

staedtler (noris)

sto lavorando a una cosa minore
che è più grande di me,
come un arco, staedtler,

che si tende dalle tue ginocchia al
labbro: gonfio.
mi danno delle scadenze
e ci gioco, me le tiro, le incollo alle impronte
come gomma-pane.

Da un campo nomadi sporco, ti saluto,
e mi auguro che alla prossima partenza
il bagaglio rosso stipato
sia uno solo.
Intanto, compro il succo fresco d’arancia,
e ripassando le O
scrivo, con matite (noris) gialle e nere
che sono un filo di lucidità nel giorno,
buono come gli altri, lui, del tendere
il filo altrui.

Antonio

Eleonora Mignoli ©
(re-processed by me)

li abbiamo attesi nel gelo racchiuso
piantati sulle mattonelle, in faccia
ai palazzi tinti di notte
che dalle finestre hanno luci
a volte rosse, li abbiamo
attesi, aprire le persiane e nel contrasto
protendersi nel vuoto, addosso ad altre lavagne, le
nostre, loro, con le loro tovaglie-aquilone…

Antonio!


Antonio!

Una voce si sporge da un labbro e abbraccia
il cortile: Antonio!

Cade.

Plana, piume, e fa curve che
segnano i fianchi molteplici morbidi
e fertili, di questa altra sera.
Ribalta,
un eco squillante
risponde: Non c’è!

Li abbiamo attesi,
dondolando con gli occhi
da destra a sinistra facendo, così, lo stesso suono del
treno a vapore, sincopati stunf stunf
nel silenzio dei nostri balconi
sussurrati dalle pompe
gelate del cuore. Hanno riaperto e poi chiuso le finestre,
per anni,
senza mai lasciarci andare, tenendoci aggrappati a
tovaglie che la notte hanno
forma di volo aquilone.

Rubinstein

Mi sono dovuto alzare per regolare il volume del mio amplificatore, nero, ruotare le grande manopola per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein leggere sulle note scritte con il culo dell’oca da mastro Chopin, Chopin, che nome già di-per-sé inequivocabilmente retrò. Sovrastare i bicchieri dei vicini, le loro televisioni, e quelle voci che sono sempre a metà tra lo stupito lo stupore che rimbalzano sul parquet, fanno l’amore con una striscia di cemento poco armato e vengono da me. Riempono i buchi, la malta fatta male, lì un po’ si disperdono, un po’ passano, ed eccomi qui che mi alzo per le loro scoregge serali per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein da un vinile un amplificatore. Le voci, gli squittii dei bambini, quelli non si possono coprire, proprio no, sono immensamente più grandi di me di questa stanza del palazzo intero e di Dio, che non c’è, ma è comunque, inequivocabilmente, lui. La febbre mi sta coccolando, è lei che ha i seni turgidi per me questa sera, la febbre, mi fa stare bene. Si è avvicinata senza chiedere permesso e mi ha avvolto, lei, una cicciona, con quelle sue tette enormi e un fondoschiena morbido sapore-del-burro. E’ stretta a me, qui, non se ne va, grassa matriosca dai rotoli rosa che scendono giù, mi scalda, e a tratti ho delle erezioni, a tratti mi rendo conto che si tratta solo di difetti, piaghe dei miei pantaloni sporchi lebbrosi. La febbre, mi tiene compagnia, Rubinstein fa la sua parte, i messaggi che continuano a suonare, continuano a suonare. Come viatico della febbre girano loro, attraversano le strade, i ciotoli i bidoni le piazze e arrivano a me: che suono. Sono un uomo chiuso, c’è la grande cicciona, con queste ombre delle mie dita che sembrano ricalcare il lavorio di Rubinstein ma questo lo dico solo, posso dirlo solo, perchè non capisco niente di pianoforte, musica e corde – le nostre corde. Niente di come si sta insieme, all’oggetto. Niente, delle sue scale, dei suoi cazzi-per-mostra-niente, e così me ne resto solo con le dita che fanno su e giù sulla tastiera, convincendomi poco, accarezzando il seno della febbre mia turgida e aspra come la cellulite; il pelo del limone; una sera come questa che manco Rubinstein, dico io, che manco Rubinstein riesce a suonar.
Chiudo lo schermo, scendo dal letto faccio tre passi e sto già tenendo in mano la chiave. E come il mio cazzo, enorme, fine fine sottile cacciavite d’acciaio per le porte dei microbi e delle illusioni: Apro la porta e mi ritrovo su un pezzo di marmo che dà sulle scale. Il tappeto, arrotolato. Il campanello, storto. La luce che mi-fa-cacare. Accanto a me, il mio vicino di casa, nella stessa posizione, con una pancia da rumeno che solo lui sa, guarda fuori dove sto guardando io e ci sono solo scale che scendono, scale che vanno su, lui ha lo sguardo cattivo che ha sempre, non mi saluta se non lo faccio io e io lascio perdere, così come lascio la porta aperta alle mie spalle mentre vado giù, affiancato da pareti verde ospedale e alte soffitta, corrimano marrone, finestre sporche nelle giunture. Vado giù, giù, ma non esco da questo palazzo, scendo ancora nelle sue viscere nella sua forma di arteria polmonare, ancora, ancora, Godiamo!, alla base della sua ragione oltre le cantine il cemento che le sovrasta, e le fondamenta di pilastri conchiglie, rappresaglie, vecchie misure. Non le avevo mai notate, io, queste scale. Quanto sono lunghe, Oh! Quando silenzio che c’è, quaggiù: solo il rumore dell’umidità e una nota, una sola, che ancora proviene dal mio amplificatore. Tentenna mi segue arriva entra e poi non c’è più, sparita, anche lei, Vado giù, ancora più giù. Un po’ mi manca, la febbre, calda e cicciona. Un po’ no, un po’ meno. Continuo a scendere e fa freddo, non c’è luce, alle mie spalle già decine di metri, lassù il mio appartamento aperto vuoto forse il rumeno-culo-di-vacca ci è già entrato. Starà cercando qualcosa. Povero uomo, a tentoni, piegato a cercare la testa che non ha battendosi le mani sul cranio, lo immagino, lo vedo. Io scendo. Mi costruisco passo a passo il motivo per cui questa sera mi sono preso l’ennesimo raffreddore bronchiale e mi reggo in piedi in silenzio. Passo dopo passo rientro nelle mie note alla radice di quello che mi fa stare meglio, la lontananza. Il bisbiglio che fa la notte chilometri sopra di me, là fuori. Tutto intorno… come un grande enorme ventaglio. Pavone. Io microbo che cerca la sua quiete, scavo, e con la mano sopra la mia testa chiudo il resto, le gente i palazzi le strade i cesti della frutta i piatti da lavare. Inarco la schiena, il passaggio è stretto. Sto ancora per un sospiro, non sento più niente, bene.

The boy in the bubble

“La superficie pare essere della stessa consistenza della guancia di mia madre quando aveva appena finito di piangere, e mi tirava su oltre le sue spalle per portarmi via di là ed io per un momento, prima di affrontare il mondo dall’altra parte della sua schiena, le sfioravo piano la pelle con la mia pelle e sentivo quello che le mie dita sentono ora: una soffice fragile frontiera di spuma. Non fa né caldo né freddo qua, la luce passa attraverso, forse attraverso anche me, ed è luce riflessa di caramello che riporta scomposte le sostanze del mondo sotto forma di colori tenui sempre diversi. Sono fermo tutto il giorno a guardarle e immaginarle queste sostanze, ci gioco con la punta delle dita le tiro a me e le mollo, le lascio partire e andare, lente nell’aria fino a quando si aggiungono alla parete della bolla. Ingrossandola. Che ci faccio qua dentro, non lo posso sapere. Io resto qua, attraggo e mi lascio catturare. Prendo in mano la luce che entra e la rispedisco un po’ qua e un po’ là. E’ l’unico senso che mi do, ma è un senso maggiore, è quello di immaginare che tutto quello che entra sia qualcosa di buono: immaginarne la forma, l’odore, sostanza, spessore. La superficie di questa bolla lo so, è fragile. Sembra il momento prima che la terra scosti la tenda del sole per fare spazio alla notte, lo spazio tra due mani che stanno per fare il loro suono di clack, la matrice che tiene unita i numeri primi a un sottoinsieme di potenze maggiori: sembra, la bolla, un giardino di curve boleane dove io posso continuare a immaginare il mondo che non so… ma che penso, aggiusto, costruisco senza rette. Senza piani. Libero di affondare le mani nei suoi seni e nelle sue altre sfere. La bolla è cristallo puro, una macchia nel cuore del burro più bianco dove io vivo e continuo ad affacciarmi oltre la spalla di mia madre sul mondo. La bolla è la corona corolla sopra la mia testa che mi permette di riflettere le cose con le braccia spalancate invaso di luce oltre i miei nervi e la schiena. La preservo con cura, con cura l’accarezzo. Io sono qui dentro. Nel fotogramma del mio occhio. Io lì vengo. Proteggo. Accarezzo la superficie oleosa di un’immaginazione che va oltre me, e ancora sono di sogno.”