The boy in the bubble

“La superficie pare essere della stessa consistenza della guancia di mia madre quando aveva appena finito di piangere, e mi tirava su oltre le sue spalle per portarmi via di là ed io per un momento, prima di affrontare il mondo dall’altra parte della sua schiena, le sfioravo piano la pelle con la mia pelle e sentivo quello che le mie dita sentono ora: una soffice fragile frontiera di spuma. Non fa né caldo né freddo qua, la luce passa attraverso, forse attraverso anche me, ed è luce riflessa di caramello che riporta scomposte le sostanze del mondo sotto forma di colori tenui sempre diversi. Sono fermo tutto il giorno a guardarle e immaginarle queste sostanze, ci gioco con la punta delle dita le tiro a me e le mollo, le lascio partire e andare, lente nell’aria fino a quando si aggiungono alla parete della bolla. Ingrossandola. Che ci faccio qua dentro, non lo posso sapere. Io resto qua, attraggo e mi lascio catturare. Prendo in mano la luce che entra e la rispedisco un po’ qua e un po’ là. E’ l’unico senso che mi do, ma è un senso maggiore, è quello di immaginare che tutto quello che entra sia qualcosa di buono: immaginarne la forma, l’odore, sostanza, spessore. La superficie di questa bolla lo so, è fragile. Sembra il momento prima che la terra scosti la tenda del sole per fare spazio alla notte, lo spazio tra due mani che stanno per fare il loro suono di clack, la matrice che tiene unita i numeri primi a un sottoinsieme di potenze maggiori: sembra, la bolla, un giardino di curve boleane dove io posso continuare a immaginare il mondo che non so… ma che penso, aggiusto, costruisco senza rette. Senza piani. Libero di affondare le mani nei suoi seni e nelle sue altre sfere. La bolla è cristallo puro, una macchia nel cuore del burro più bianco dove io vivo e continuo ad affacciarmi oltre la spalla di mia madre sul mondo. La bolla è la corona corolla sopra la mia testa che mi permette di riflettere le cose con le braccia spalancate invaso di luce oltre i miei nervi e la schiena. La preservo con cura, con cura l’accarezzo. Io sono qui dentro. Nel fotogramma del mio occhio. Io lì vengo. Proteggo. Accarezzo la superficie oleosa di un’immaginazione che va oltre me, e ancora sono di sogno.”

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