Un ritorno alla poesia [A Poem]

 

[Note: I claim of writing poetry in my own language. After more than a year, I am coming back to it. This blog have more than 150 poems in it, reaching back to 2008. You can dig in them clicking here. More on my fictive writing, here.)

 

La poesia e’ complessa!

 

Non è separazione, perchè siamo inseparabili,

e ho letto su un libro di Carlo Rovelli, anche indecifrabili, nel senso,

che se ci pensi non c’è neppure un presente! Solo relazione!

Alla faccia dell’ora e del quando, io quindi sono,

alla faccia del penso,

solo un continuo riposizionamento, ecco cosa siamo.

 

Madeleine di bruciato e Ipercoop. Di vicolo stretto e vera, profonda, incompiutezza.

Di fondo, la poesia è uno schiaffo di vecchia!

 

Inopportuno, per l’etá.

Raggrumato all’angolo di una bocca una bozza di febbre,

per stanchezza.

 

Vai avanti e dimmi cosa devo fare. Dimmelo ora, come farebbe Cortana,

una assistente cosi’ parziale che si smarrisce a confronto con la potenzialitá

di questa seconda decade degli anni duemila,

un millennio iniziato con il disorientamento del numero cellulare che ci ha trovati fuori posto

al pensiero stesso del libro-facciale, del faccia-libro, della decomposinzione.

Un pezzo alla volta, dall’emozione al sentimento per via dei dati in gestione.

Dalla gestione al pentimento, dati in privatizzazione.

Di fondo non sicuri, anni e dilatazione.

 

Che so solo di giri di parole e mozzichi sul collo.

Non so piu’ fare all’amore. L’ho perso per via di poca pratica e peso acquisito,

lo perso sulla Gymnopèdie, mi sento esaurito. E lento,

piu’ sveglio e piu’ lento; piu’ aperto alla complessita’ e piu’, in fondo,

assolutamente rassegnato a segnare l’inevitabile fluire del tutto se non per

protagonismi parziali e alzate di mano minori. Di minore teoria,

rarefatto tenore.

 

La poesia ritorna, la poesia non muore!

E’ bastato buttare a mare il cellulare per vedere risorgere le parole che

quando le incastro e’ come il corpo che si lascia andare

a dormire. Ogni singolo nervo si slaccia si accascia,

e sale la sera distesa su me come una piccola fine.

 

Fuori dalla finestra un vecchio passa, sono le due,

si ferma al semaforo pedonale quando la citta’ intorno

e’ morta da tempo e non c’e’ nessuno da aspettare

nessuno da far passare, nessuno da alcun-modo-di-fare, eppure

lui senza fretta si ferma

e intorno, davanti a lui, tutto un vuoto che

tutto contiene. Come se ci dovessimo tutti annegare.

La poesia, il vecchio e il ritorno

alla soglia del labbro, di queste quattro parole.

 

 

 

 

 

 

 

Solismo

Nell’esercizio delle sue funzioni
Nell’esercizio delle mie funzioni
Le mie mani sembrano la periferia estesa di
Un modello di Boggi Milano su una
Umberto Dei, tutta una citta’ coi binari dei tramvai bagnati
E le sei della mattina, le cinque delle mattina,
Le quattro accartocciate su se stesse e solismi,
sofismi, funzioni applicate alla buona riuscita
di oscuri meccanismi.

Che i meccanismi, hanno i loro meccanici,
Dipinti per l’occasione à la Calvino, Palomariani,
lavoratori di classe con un gusto di classe opposta,
panino nella stagnola e pensiero di finitudine riflesso
sulla coda del volo mondato di uccelli
alla finestra. Overture:
Sul treno l’uomo nero ha i piedi sul sedile e si gira
a chiedere alle vecchie sorelle Vitton se per cortesia,
cosi’, per una estensione, possano tacere.
Lui deve dormire e con lui ogni notte.
Ogni meccanico, e ogni estensione.

Tessuta come le dita sul piano,
La ferrovia, in arrivo a Magenta per Pioltello Limito,
dove dal nome uno pensa di trovare una statua del milite ignoto,
e invece e’ tutto buio tutto pisciato e le assonanze non
funzionano piu’. Restano solo i nostri piedi nel melmo
della risaia e i nostri occhi a riflettere senza un’aggiunta.

In attesa a vederle passare:
Liste di case basse, intonaci, eternit —
Cascine coi tetti rossi, l’aia, l’IKEA —
I grandi fusti di farina pressata Barilla,
motociclette, Ferrari, nigeriani —
e quei bar che non sai mica se e’ aperto se e’ chiuso
sai solo che e’ vino versato paglierino alla spina.

Ed e’ cosi’ che tutti, cullati, dal Solito,
il nero la notte il Vitton col Boggi sul milite ignoto, e’ cosi’ che tutti
appena passati, ci ricorderemo:

Le sue funzioni, le sue passioni, le sue azioni.
Le sue mansioni, decisioni, apprensioni.
Le sue aperture, paure, fissazioni,
masticazioni e affirmazioni,
erezioni e proposizioni,
mascelle, bavette,
e un grumo di saliva all’angolo delle sue ragioni.

Stasi

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S- convulsione,
Una schiena che va dove non deve, e gradi che sono una limitazione,
Non grado militare, non calore, grado di tara,
Grado di terra pressata al passaggio,
Piede di punta a far punto
Con le dita impegnate in un gesto a fare l’orlo del giorno.

T- sottilisimi esagerati solismi,
Aperture di porte e mani su scale a ripetizione, di cui non c’e’ fine,
Affacciati al marciapiede si vedono citta’ intere,
Bocche indipendenti dalle loro parole aperte come
Assertive mascelle fasciste,
Con le anche a dar colpi al tullé.

A- formicolio genitale,
Cane di palle che saliva e pasticcini a inghiottire,
Danza siciliana, danza calabrese, abrasa di notte e di lampo
Occhi che sembrano tornelli della stazione, per le loro chiusure
A contenere un nero melassa,
Che tutto dentro ribolle. Alla testa. Per non farlo cadere.

S – vasi di genziane,
Coi peperoncini e la saliera, caffettiere e presine,
Li vedi dal basso, case accoglienti e palto’,
Ci sei dentro e dentro e’ piu’ vuoto, un rimbombo
Di ciabatte esaurite giunture,
Le falangi apprese al legno incrinato. Il corrimano.

I – crampi alla pancia e fare l’amore,
Quando capita e come viene, appesi vestiti di armadio,
Assemblati alle porte e alle cose,
Malamente incastrati, coi piedi a sgusciare
E salve a salire salive, silenziose in verticale,
Dove i ragni si tendono a tesserle per farne un altare.

 

Le parole

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A organizzarle le parole, a tagliarle,
in caselle, che finisco poi come i libri,
abbandonate alla luce del
neon, che solo un piano le puo’ salvare,
un piano trasversale: suonato come qualcosa
che sembra cadere per tagliare in due la
stanza, sospeso cosi’ che-non-si-puo’
che non si deve.

Non hanno luce le parole,
tutta dentro per pretendere di farsi sentire,
Sempre piu’ grandi sempre piu’ mani
attaccate ai loro pendagli per tirarle
giu’, con l’idea di potercene
riappropriare, (sonagli tra le dita come piattini
e linguette, a scondinzolare; hanno bave e farsetti o collari
Indiani che sembrano richiudersi, aprirsi,
come ballare.)

Ma ci abbattono le parole.
Sono come le case tradizionali di vecchi ministri Thai in mezzo
ai palazzi di nuova Bangkok, un relitto passato che ha fascino fino
a che non viene spiegato, poi le parole si perdono come riflessi
sui blocchi vetrometallo, si schiantano e volano via,
Volano sul lato alto del tendone e via, a incastrarsi tra i tiranti
come denti e capelli e sorrisi –
(Rosse le gengive, di tutto questo volare.

In sangue e di sangue le parole,
come impalcature
destinate dalle loro strutture a tendersi fino ai punti che chiudono l’esaurimento interiore.)

Senza pagare il biglietto, le parole,
che anche l’elefante resta a guardare e quasi
quasi s’indegna e scivola giu’ da quel
suo vecchio pallone.

a parlare

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Ho parlato di piano e ho parlato di te,
ho parlato di cose che non si dicono e ho
parlato di mare, di cose grandi, per dire,
di cose che non si articolano da sole,
che uomini di provincia non sanno articolare,
e dita a incrociarsi, e modi di dirsi,
modi che non si sanno dire, se non per
organizzarle come fossero affari importanti,
le cose.

Mentre fuori tutto piove,
dentro tutto tace. Banalita’ contadine
e lembi d’asfalti uguali a se stessi,
di capannoni sparsi, da Mongrando a Verrone a
BorgoFranco Canavese,
come le parole che ci stanno piu’ vicine,
le cose che non sappiamo dire.

E i campanili, le chiese, le morti
suicide e accoliti da panettiere.
Le auto, le citta’ che si muovono senza che
uno o l’altra le si possa toccare.

Ho parlato di giacche e ho parlato di
stress, ho parlato di progettazione sul nostro
futuro intangibile. Ho parlato al giorno
che sono stato a guardare e
dopo tutta quest’acqua l’ho visto,

due occhi bordeaux
che non mi stava a sentire.

before

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it’s burning
behind and below,
papers and eyes
when this smoke rises up like
missing the point, a surprise,

which I can see in your place,
your beautiful place,
where I can be porn I can be
what I do not want to be:
boring be:
I want to being, to freeing
to puking,

I want to inserting to consuming to finish,
and then taking  a breath
to bake again, slowly,
just in time for that time in which there is no
time for, just time-in,
just some miles more,
without finishing, always on the verge of
coming, like while you do so –

or you do not –

like before the morning
in which there is no morning for –

a poem for all the moments in which there is no
enough beauty
for us all.

Piu’ in alto

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Alla mia cara amica Elena.

Ho bisogno del volume
Tienilo alto
Che insieme al volume e all’altezza
Lascieremo le case, pareti,
Tappetti a quadrettoni,
Queste nostre paure interiori

Lascieremo il ragno solo,

E se lo tieni alto abbastanza festeggieremo
Tu e io,
Il compleanno in Paradiso,

Con Pietro un drogato barbone che puzza di ali
E dice Signori della Corte e del
Cortile, piu’ aperto di una casa il cortile
Che la casa e’ prigione:
Parete
E tappeto a quadrettone.

Alto, che si ha paura delle altitudini inferiori,
Alto ti prego,
Che sara’ come andare in metro nella Bucuresti
Col puzzo di benzene e il punto croce,
L’uomo sargente che guarda che ci si guardi
Dal fare del male, e le
Solite ragioni per una fretta da avere.
O non averne, o battere le mani a tempo giusto
Per non comprenderne.

E della giostra di parole,
Di questa giostra di parole,
Tu che hai vissuto? Tu lettore, tu poeta

Tu uomo che hai paura di affermare
La tua paura di lasciare, O donna sospesa
dalla tua definizione…

Che sono cosi’ veloci le parole

E non hanno peso le parole

Una musicalita’ che per noi e’ legale,
Una droga che ti inietti nelle vene quando ti va ti parlare
E ti tiene alto, alto,
Ancora piu’ alto di quanto ti possa sorprende
Cadere e farti del male.

E adesso che le parole se ne vanno
E l’ago sottopelle e’ spezzato
Tu vedi la notte e il giorno

E chiudi gli occhi come fanno
I bambini per scherzo, all’insu’,
Ma tu per davvero,
tu per davvero,
che il sogno e’ il posto in cui stare,

per aspettare la vertigine
a cui non posso arrivare.

 

 

 

 

 

Penis Watch

apple watchI wanted a watch,
a penis-watch,
to measure the times
(how many times and more)
of my healthy erections,

Which are a lot
less, than I thought
years ago,
when I was twenty and there was
no penis-watch and
no disco
or just some disco,
and everybody was pushing
like manituana
at the exit line like
monkeys one on top of
the other, and back too,
that we love it
(the back).

And now they made it!

A crumpled turned moulded
accappella-penis-watch.

And the more I look at it,
even through it,
(can you believe
I can see through it?)
I am not so sure
I am going to want &
wear &
come it anymore.

I know it would tell me to run more
and smoke less.
To wear better-best
and drink less.
To pump up
and sleep less. To:
spray me with shininess,
and hide less.

But is more that I want, you see?
This babbling penis-watch
is no watch for me. I am going back.
Cueing,
rolling,
pawing, ‘nd jamming.

scheeeet

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e aggiungi una nuova linea
di quelle
sheeeeet!

aggiungi una nuova linea tra i tuoi capelli,
una pagina bianca come la lingua
delle parole girate a
origamo, ricamo parole giusto per
l’amore delle cose in cui
crediamo,
che non sono, le cose in cui crediamo,
piu’ valide, [lo sono mai state poi

valide] E ancora,
le spingiamo come borse
del negozio senza licenza, o le
mettiamo col maiale di colla in dispensa, bruscoline,
come le rime tra gli occhi al mattino
o i pallini di lanolina nel culo,
scarpe e cartoni e ceci in fondo al frigo
come una galassia impossibile da sfiorare
o anche solo prendere in considerazione, che
fumare fa male
e il malumore fa male,
che le piante hanno un senso ulteriore,
quello di divagare, che divago:
lo sai che divago e che
e’ tutta una grande circonvalazione la nostra, un lungo
discorso con tanti a capo e
una scusa come un’altra
per venirti incontro
e dalla schiena abbracciarti,

sul divano stesi
lo specchio
a toccarci

alla porta appesi
sorpresi
a baciarci

i nostri arti
tesi
che mica sembrano poi nostri.

 

A vederli passare

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Restiamo incantati
a vederli passare, immobili documenti
su barche
e onde e orecchie a
tenere capelli dal vento, restiamo
incantati a vederli passare.

L’uomo sospeso in un cimitero
grande città, regge una cazzuola
e fa rumore di risacca
quando la spalma a chiudere
il marmo della sera,
com’è sorta presto la sera,
gesto ripetuto ripetitivo caduta

lacrima scivolata, fotografia
prestampata, fiore posato
– c’era anche una bella giornata.

Incantati,
a vederli passare,
l’immobile mettersi in fila
e in fila tenersi per mano

con le mani in tasca a nascondere il fatto

che ci si debba prima o poi
tenere per mano.

Alto il sole
alta la schiena
cantami la notte che non
si può cantare da sola,
Alta la stella che indica la rotta a chi
di stelle e di rotte
non capisce assai, a vederli passare,
quelli prima di noi,
incantati

immobili

inebetiti –

Monili,
suppellettili fragili
come suono che fa la cazzuola
a chiudere una bara
come una pagina, e poi ci si gira
ed è una volta sola
una volta ancora.