A organizzarle le parole, a tagliarle,
in caselle, che finisco poi come i libri,
abbandonate alla luce del
neon, che solo un piano le puo’ salvare,
un piano trasversale: suonato come qualcosa
che sembra cadere per tagliare in due la
stanza, sospeso cosi’ che-non-si-puo’
che non si deve.
Non hanno luce le parole,
tutta dentro per pretendere di farsi sentire,
Sempre piu’ grandi sempre piu’ mani
attaccate ai loro pendagli per tirarle
giu’, con l’idea di potercene
riappropriare, (sonagli tra le dita come piattini
e linguette, a scondinzolare; hanno bave e farsetti o collari
Indiani che sembrano richiudersi, aprirsi,
come ballare.)
Ma ci abbattono le parole.
Sono come le case tradizionali di vecchi ministri Thai in mezzo
ai palazzi di nuova Bangkok, un relitto passato che ha fascino fino
a che non viene spiegato, poi le parole si perdono come riflessi
sui blocchi vetrometallo, si schiantano e volano via,
Volano sul lato alto del tendone e via, a incastrarsi tra i tiranti
come denti e capelli e sorrisi –
(Rosse le gengive, di tutto questo volare.
In sangue e di sangue le parole,
come impalcature
destinate dalle loro strutture a tendersi fino ai punti che chiudono l’esaurimento interiore.)
Senza pagare il biglietto, le parole,
che anche l’elefante resta a guardare e quasi
quasi s’indegna e scivola giu’ da quel
suo vecchio pallone.