Leggo questo documento, un documento che devo leggere codificare allacciare ad altri per costruire qualcosa di sensato, un argomento, una connessione. La ricerca. Leggo questo documento, commercial in confidence, prodotto dalla Business School in cui lavoro. Perche’ io, si’, lavoro in una Business School. Il documento parla dei futuri benefici che il progetto di cui mi occupo avra’ per la Scuola. Tra gli altri, il progetto facilitera’ la ricerca, la rendera’ piu’ interdisciplinare, (forse anche) creativa. (Forse e anche li aggiungo io, che non sia mai. Saremo tutti piu’ creativi, e’ chiaro). La cosa interessante del documento non e’ relativa al progetto di cui mi occupo, almeno non direttamente. E’ la seguente: un top-researcher fa guadagnare all’Universita’, all’anno, 515.000$. Cinquecentoquindicimila-dollari, attraverso grants, collaborazioni con industrie, and so on. Questo e’ il punto, che viene evidenziato nel testo, nel testo in cui si parla di ricerca accademica. Poi c’e’ una nota, a pie’ pagina, in cui vi e’ scritto: “It should be noted that this calculation does not take into account research publication output which is a very significant contributor to research reputation” / “E’ da notare che la cifra non tiene in considerazione i prodotti della ricerca accademica (articoli, libri, convegni) i quali sono un contributo molto importante per la reputazione della ricerca stessa”. In sostanza, noi produciamo anche papers, anche risultati, e forse, magari, anche se il testo non lo dice, aiutiamo anche a diffondere conoscenza. Pero’, tutto questo, lo facciamo in una nota. Nel testo, in quello vero, quello per cui tutti i giorni sto seduto in questo ufficio, noi facciamo altro. O siamo chiamati a far altro. Attirare fondi, collettare denari, applicare strategie istituzionali.
Io da piccolo pensavo, da grande in qualche modo diventero’ qualcuno. Cioe’, faro’ qualcosa di importante. Oggi ho cambiato idea. Oggi quasi quasi mi viene voglia di licenziarli / si’, di licenziarli dalla mia vita. Di prendere lo schermo di questo pc e farlo creativamente volare giu’ dalla finestra. Ma tengo ancora i nervi a posto. Voglio provarci, ancora, a capire come stanno le cose qui dentro, qui nella pancia dove parte del tutto nasce, nella Business School. Almeno fino a quando mi proporranno di partecipare a un grant. Almeno fino a quando scrivere un post e fumare una sigaretta mi aiuteranno a tenere botta a questo giochino.
Piano quinquennale thinking
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Produrre.
Ho in mente il pubblico, quando scrivo. In mente l’emozione della lettura in pubblico, quando scrivo. Vorrei passare la mia vita a leggere, in pubblico. E’ tutto molto più vero di quello che sto per fare: diventare una macchina per produrre articoli accademici di secondaria importanza pubblicati su riviste quotate molto in alto da consumare nel tempo di una quote.
Mi pagano bene.
Questa cosa qui è come ascoltare un pezzo dei Coldplay, sai già come va a finire. Questa cosa qui è come essersi persi per tutto e per tutti. E’ come se con la lucidità uno ci si fosse pulito il c: nel futuro in cui sarò – vedo troppo bene la linea di demarcazione.
E’ pericoloso sapere dove si andrà a finire.
Linea di fuga linea di fuga multipiano azione, ribaltare: allenarsi continuare a fare flessioni sulle parole. Oggi una mia amica scrive:
Nel frattempo ci restano le parole,
che comunque
volendo
non è poi proprio niente.
(Claudiet)
Ragione. Darle ragione farlo proprio. Tornare a non dare per scontato.
Domani andrò a lavoro tenendo a mente che quello che sto per fare è produrre. Questa è la chiave. Produrre cose che non si possono consumare: modificare, annientare, scopare. Riprodurre, sì. Stare attenti ai dettagli della vita quotidiana che sono la chiave per restare attenti, godere. Non si possono consumare. Che non si possono consumare.
Ciò che è nostro è nostro, e ci spetta.
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Rubinstein
Mi sono dovuto alzare per regolare il volume del mio amplificatore, nero, ruotare le grande manopola per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein leggere sulle note scritte con il culo dell’oca da mastro Chopin, Chopin, che nome già di-per-sé inequivocabilmente retrò. Sovrastare i bicchieri dei vicini, le loro televisioni, e quelle voci che sono sempre a metà tra lo stupito lo stupore che rimbalzano sul parquet, fanno l’amore con una striscia di cemento poco armato e vengono da me. Riempono i buchi, la malta fatta male, lì un po’ si disperdono, un po’ passano, ed eccomi qui che mi alzo per le loro scoregge serali per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein da un vinile un amplificatore. Le voci, gli squittii dei bambini, quelli non si possono coprire, proprio no, sono immensamente più grandi di me di questa stanza del palazzo intero e di Dio, che non c’è, ma è comunque, inequivocabilmente, lui. La febbre mi sta coccolando, è lei che ha i seni turgidi per me questa sera, la febbre, mi fa stare bene. Si è avvicinata senza chiedere permesso e mi ha avvolto, lei, una cicciona, con quelle sue tette enormi e un fondoschiena morbido sapore-del-burro. E’ stretta a me, qui, non se ne va, grassa matriosca dai rotoli rosa che scendono giù, mi scalda, e a tratti ho delle erezioni, a tratti mi rendo conto che si tratta solo di difetti, piaghe dei miei pantaloni sporchi lebbrosi. La febbre, mi tiene compagnia, Rubinstein fa la sua parte, i messaggi che continuano a suonare, continuano a suonare. Come viatico della febbre girano loro, attraversano le strade, i ciotoli i bidoni le piazze e arrivano a me: che suono. Sono un uomo chiuso, c’è la grande cicciona, con queste ombre delle mie dita che sembrano ricalcare il lavorio di Rubinstein ma questo lo dico solo, posso dirlo solo, perchè non capisco niente di pianoforte, musica e corde – le nostre corde. Niente di come si sta insieme, all’oggetto. Niente, delle sue scale, dei suoi cazzi-per-mostra-niente, e così me ne resto solo con le dita che fanno su e giù sulla tastiera, convincendomi poco, accarezzando il seno della febbre mia turgida e aspra come la cellulite; il pelo del limone; una sera come questa che manco Rubinstein, dico io, che manco Rubinstein riesce a suonar.
Chiudo lo schermo, scendo dal letto faccio tre passi e sto già tenendo in mano la chiave. E come il mio cazzo, enorme, fine fine sottile cacciavite d’acciaio per le porte dei microbi e delle illusioni: Apro la porta e mi ritrovo su un pezzo di marmo che dà sulle scale. Il tappeto, arrotolato. Il campanello, storto. La luce che mi-fa-cacare. Accanto a me, il mio vicino di casa, nella stessa posizione, con una pancia da rumeno che solo lui sa, guarda fuori dove sto guardando io e ci sono solo scale che scendono, scale che vanno su, lui ha lo sguardo cattivo che ha sempre, non mi saluta se non lo faccio io e io lascio perdere, così come lascio la porta aperta alle mie spalle mentre vado giù, affiancato da pareti verde ospedale e alte soffitta, corrimano marrone, finestre sporche nelle giunture. Vado giù, giù, ma non esco da questo palazzo, scendo ancora nelle sue viscere nella sua forma di arteria polmonare, ancora, ancora, Godiamo!, alla base della sua ragione oltre le cantine il cemento che le sovrasta, e le fondamenta di pilastri conchiglie, rappresaglie, vecchie misure. Non le avevo mai notate, io, queste scale. Quanto sono lunghe, Oh! Quando silenzio che c’è, quaggiù: solo il rumore dell’umidità e una nota, una sola, che ancora proviene dal mio amplificatore. Tentenna mi segue arriva entra e poi non c’è più, sparita, anche lei, Vado giù, ancora più giù. Un po’ mi manca, la febbre, calda e cicciona. Un po’ no, un po’ meno. Continuo a scendere e fa freddo, non c’è luce, alle mie spalle già decine di metri, lassù il mio appartamento aperto vuoto forse il rumeno-culo-di-vacca ci è già entrato. Starà cercando qualcosa. Povero uomo, a tentoni, piegato a cercare la testa che non ha battendosi le mani sul cranio, lo immagino, lo vedo. Io scendo. Mi costruisco passo a passo il motivo per cui questa sera mi sono preso l’ennesimo raffreddore bronchiale e mi reggo in piedi in silenzio. Passo dopo passo rientro nelle mie note alla radice di quello che mi fa stare meglio, la lontananza. Il bisbiglio che fa la notte chilometri sopra di me, là fuori. Tutto intorno… come un grande enorme ventaglio. Pavone. Io microbo che cerca la sua quiete, scavo, e con la mano sopra la mia testa chiudo il resto, le gente i palazzi le strade i cesti della frutta i piatti da lavare. Inarco la schiena, il passaggio è stretto. Sto ancora per un sospiro, non sento più niente, bene.
The boy in the bubble
“La superficie pare essere della stessa consistenza della guancia di mia madre quando aveva appena finito di piangere, e mi tirava su oltre le sue spalle per portarmi via di là ed io per un momento, prima di affrontare il mondo dall’altra parte della sua schiena, le sfioravo piano la pelle con la mia pelle e sentivo quello che le mie dita sentono ora: una soffice fragile frontiera di spuma. Non fa né caldo né freddo qua, la luce passa attraverso, forse attraverso anche me, ed è luce riflessa di caramello che riporta scomposte le sostanze del mondo sotto forma di colori tenui sempre diversi. Sono fermo tutto il giorno a guardarle e immaginarle queste sostanze, ci gioco con la punta delle dita le tiro a me e le mollo, le lascio partire e andare, lente nell’aria fino a quando si aggiungono alla parete della bolla. Ingrossandola. Che ci faccio qua dentro, non lo posso sapere. Io resto qua, attraggo e mi lascio catturare. Prendo in mano la luce che entra e la rispedisco un po’ qua e un po’ là. E’ l’unico senso che mi do, ma è un senso maggiore, è quello di immaginare che tutto quello che entra sia qualcosa di buono: immaginarne la forma, l’odore, sostanza, spessore. La superficie di questa bolla lo so, è fragile. Sembra il momento prima che la terra scosti la tenda del sole per fare spazio alla notte, lo spazio tra due mani che stanno per fare il loro suono di clack, la matrice che tiene unita i numeri primi a un sottoinsieme di potenze maggiori: sembra, la bolla, un giardino di curve boleane dove io posso continuare a immaginare il mondo che non so… ma che penso, aggiusto, costruisco senza rette. Senza piani. Libero di affondare le mani nei suoi seni e nelle sue altre sfere. La bolla è cristallo puro, una macchia nel cuore del burro più bianco dove io vivo e continuo ad affacciarmi oltre la spalla di mia madre sul mondo. La bolla è la corona corolla sopra la mia testa che mi permette di riflettere le cose con le braccia spalancate invaso di luce oltre i miei nervi e la schiena. La preservo con cura, con cura l’accarezzo. Io sono qui dentro. Nel fotogramma del mio occhio. Io lì vengo. Proteggo. Accarezzo la superficie oleosa di un’immaginazione che va oltre me, e ancora sono di sogno.”
fondamentalmente
manifestazione
Sarà stato un telo, plastica bianca, trasparente. Quello usato dai muratori da mettere in terra, là, appeso alla gru di fronte a casa mia, un telo bianco svolazzante a mezza altezza sulla torre piantata tra alcuni palazzi ormai un po’ scrostati, fatti anni ’60, cartongesso e tubi ramati. Dietro, la città, con tutti i suoi palazzi, le solite cose – il dito di mussolini con un altro telo svolazzante verdebiancorosso, sulla sinistra la mole che è un non-sense molto bello però. Esco sul balcone prevalentemente per prendere e riporre lo stendibiancheria, e fumare. Ovvio, fumare. Accendo, inspiro. Butto fuori l’aria la lascio andare.
Oggi gli studenti a pochi passi da qui stanno manifestando. Si fanno trainare un po’ dalla folla di cui fanno parte, un processo interessante, una specie di domino dominio, credo. Dovrei approfondire. Mi sembra di sentirli, tendo l’orecchio: una voce gracchia da un megafono, la sento male. Poi afferro meglio Arance 3 euro la cassa, signore! Il tipo gira col suo furgoncino in questo quartiere. Ha l’alito che sa di vecchio e le mutande a quadri. Solo 3 euro belle le arance signore! Un’altra forma di manifestazione. Continuo a fumare.
Manifestare è una sorta di allenamento, un’esperienza da fare. Il petto si gonfia, scorre sangue nelle vene, sai di questo e di quello parli guardi ti fai guardare. Quante volte l’abbiamo fatto? Non capisco ora se provo per questi poveri studenti che scrivono compiti da 13 a cui si dà 18 per commiserazione (e voglia di vederli andare via) compassione o commiserazione. Probabilmente nessuna delle due: fanno quel che credono giusto fare ora, qui, in questo autunno, loro. Bene.
Continuo a fumare mentre guardo il telo che schiaffeggia la gru. Sbatte e si ritrae, torna alla carica poi il sole ci passa attraverso e lui lo apre e lo chiude. Legato al suo bastione, a volte cade, moscio. Si riprende, sbatte. Ritrae. Manifestazione.
Gli studenti vanno scemando per le strade. Sono andati un po’ da Ciro Pizza, un po’ al Bar degli Artisti, un po’ a scopare come ricci nelle loro mansarde senza riscaldamento. Sono coiti mediocri, brevi. Al loro posto, mentre spengo la sigaretta contro la ringhiera, sento ronzare intorno a questi palazzi il vespino Belle le arance, signore! con quella voce gracchiante che entra nei cortili fatti di cemento e lamiera rimbombando: arance, signore… nce, ore… e, e… Il sole va calando anche lui, fa un arco sul mondo e sulle vetrate che, scintillando come quando si apre un’arancia gialla e succosa, mi indicano la via della rivoluzione: la costanza del vespino, la costanza della routine, di un megafono, di un odore. Chiudo la finestra alle spalle e torno a studiare.
Expectations (l’albero di mele)
(colonna sonora: http://www.youtube.com/watch?v=2IRSeisLf1s)
L’hanno potato. C’è solo un ridicolo insieme di rami e cielo ora, là fuori. Stanno lì, insieme, un po’ spauriti un po’ spaesati, si tengono per mano quasi a coprire la verginità del legno rimpiangendo le foglie che furono. Di mele, neanche l’ombra. L’uomo con la camicia a quadri se le è portate via. Magari se le è mangiate sul suo camion scassato, o le ha messe in un pentolino con due dita d’acqua e si è fatto melecotte. Avrebbe fatto bene ad aggiungerci del Porto, ma qui non si trova, il Porto. Ha tagliato anche le rose, l’uomo con la camicia a quadri. Erano gialle, limpide gialle nel mio giardino. Neppure il tempo di una fotografia e due cesoie se le sono portate via. Spero in un vaso, a dirla tutta, o in un dono. O anche al cimitero, perchè no? Rose gialle sulla tomba di uno sconosciuto, posate gentilmente da un uomo grasso che per saluto… ti volge le spalle.
Questo giardino è ora irrimediabilmente violato. Ha meno pathos di giungla, ha meno ho-qualcosa-da-dirti di quello che aveva nel suo essere scomposto, anarchico, abbandonato. Ora sta lì, qualcuno si è preso cura di lui, pur avendo fatto un lavoro approssimativo: l’erba ancora alta ai bordi, le pietre della conca artificiale spostate, il cane di plastica riverso in un angolo. Un lavoro decisamente sotto le aspettative, le tue, le mie – evidentemente amorfe. Ha messo due sedie però, l’uomo con la camicia a quadri. Due sedie e un tavolino, in mezzo a questo piccolo spazio di verde rigorosamente cintato. Sono due sedie e un tavolino che in qualche modo rendono tutto più semplice, più sicuro. Bisogna riconoscerlo, dargliene atto.
Io esco e vado là e mi siedo. Ho il mio bicchiere di whiskey e le mie sigarette, i fiammiferi e la luna coperta dalle nuvole che comunque, a suo modo, c’è. Scendo sempre intorno alle nove, dieci di sera. I vicini dormono, i miei coinquilini studiano, i miei coinquilini dormono, e io mi sento perfettamente a mio agio là in mezzo, solo. Alla mie spalle, la staccionata di legno che mi divide dal resto del mondo. Davanti a me l’albero di mele stuprato. Sotto i miei piedi delle mattonelle bianche e nere, che vanno a morire nell’erba tagliata con la fretta di abbandonare il campo di gioco. Il whiskey è magico, in questi momenti. Lontano da casa. Lontano da voi. Lontano da un mondo di cui sento, poveramente, la mancanza. Accendo una sigaretta e mi piace tirarla, farla venire, sentirla crepitare nel silenzio della notte in questo giardino spoglio, strappato, asciugato. Passo sotto la lingua un abbraccio di Glenmoriange, ho bei ricordi. Aspettative per il futuro, ansie, zero. Solo la pelle, la carne e i nervi di questo presente.
Allargo le braccia dopo aver inalato, mi distendo. Grande la notte, grande invenzione. Grande la fuga, grande trovata. Mi fermo a guardare l’albero senza le mele, e non so cosa potermi aspettare. Attendo un segnale, un tocco di vento, qualcosa che sposti il tasto, quello blu, quello rosso dentro di me, verso serenità assoluta.
Ma poi lascio perdere, distolgo, è un delirio. Serenità per chi? Serenità per cosa? Meglio continuare così, incrociare le gambe e lasciare scorrere il tempo e lo spazio, tessere in un piccolo angolo. Fumare, e bere. Gli altri che corrano, incapaci di vedere. La bellezza, il succo, lo spago dentro a cose minuscole. Povere. Nuove.
Quando l’uomo con la camicia a quadri ritornerà lo guarderò sul suo naso patatone e gli chiederò tre cose. Che fine hanno fatto le rose. Se crede sia giusto che l’albero, dopo quello che gli abbiamo fatto, continui a darci le mele. E se lui la luna, in fondo, la vede. O se la sente soltanto, muoversi intorno. Come capita a me quando fumo, e la sua ombra si appoggia alle mie spalle. Quando sono solo, sto bene, e non credo che siano poi così rilevanti, queste mele.
I ragni del mio giardino
Sono sceso in cucina per farmi un toast. Per produrlo. Pane in cassetta comprato da Tesco, impastato lamiera, in qualche orribile fabbrica del sud est dell’Inghilterra. Formaggio tipo feta, quello economico, denominato “formaggio salato”. Sempre comprato da Tesco, e prodotto chissà dove, con chissà quale bestia, chissà quale follia. Sono sceso in cucina e non ho acceso la luce che qualcosa, anche se sono le due, ancora filtra dalla finestra. Qualcosa di riflesso. Qualcosa che in effetti, per quanto banale sia, è proprio colore d’argento. Ho fatto il toast, l’ho prodotto, ho mangiato. Tutto in un silenzio da carta di giornale non sfogliata. Tutto in un sottilissimo vuoto tra me, la notte e il prossimo giorno. Ho deglutito, cestinato le briciole. Mi sono lasciato alle spalle le porte della cucina, della sala, e sono risalito in stanza, nella mia stanza. Lì, sul tappeto fine marrone, ho acceso due cose: una candela, la mia sigaretta. Ho inalato, espirato. E sono andato verso la finestra con una certa voglia a metà.
Dalla finestra, non vedo la luna. La luna, non la vedo quasi mai. Lì mi sono messo a pensare, volutamente, consciamente. Ho pensato che sono un aggregato di cose che non mi appartengono, ma che mi porto dietro, ma che mi entrano dentro. Quello che vesto, quello che sento, quello che compro. Tutto entra dentro, tutto dentro di me, a far parte di me: nelle vene nei polsi, nei nervi. Sotto i capelli. Nella mia mente. Ne sono affranto, estenuato, stanco. Mi comprano, mi creano. E non se ne rendono neppure conto. Sono abbastanza contento, al contrario, di quello che dico: perchè sto quasi sempre zitto. Silente. Mia madre da bambino mi diceva: piangi sempre. Ora che non mi può sentire dentro, sarebbe felice.
Ho finito la mia sigaretta, e il vento, immediato, me l’ha fatto notare. Tremo. E non posso stare fermo lì, alla finestra, senza far niente. Ma non è per il tremore. E perchè… mi hanno insegnato così. Mi hanno insegnato che se inizio ad amare una persona, devo mettere le mani avanti. Mi hanno insegnato che contemplare è, di per sé, un ozio per una classe a cui non appartengo. (E chi me le avrà insegnate mai queste cose, se non l’uomo che fa il mercato?). In ogni caso, io ho un’intelligenza superiore alla media, e ho trovato le mie vie di fuga: faccio qualcosa, mi tengo occupato, e posso pensare e guardare. Quindi, mi accendo un’altra sigaretta.
Mi affaccio. Fuori il mio giardino pare una giungla cattiva, perchè non vorrebbe essere giungla, non è stata programmata per quello. E perciò si incazza con me, che non la curo, che non me curo, e crea ragni, e altri animali e insetti terribili che non vedono l’ora di violentarmi con la loro rabbia di personaggi in cerca d’autore. Dovrei tagliarlo, potarlo, amarlo, appassionarmici: renderlo urbano. Ma io sto pensando al Napalm in questo momento. I ragni del mio giardino devono morire. Tutti. E sto pensando anche – fumo con la sinistra e non mi lamento – che vorrei sentirmi dire da te, in questo momento, tante cose. Tutte quelle cose di cui ho bisogno, tutte, insieme, come un abbraccio, come una certezza. Io di certezza te ne darei tanta, posso farlo, ne ho come sigarette, all’infinito, che posso non mangiare, per fumare, io. Ma la luce riflessa e in fondo anche i ragni del mio giardino non curato, mi dicono che non posso chiederti nulla, nulla di più. Che non posso pretendere nulla, nulla da te. Che dobbiamo solo scoprirci, come due cipolle. Le cipolle che nel giardino non ho, perchè non le potrei sopportare. Le cipolle di questi pensieri a più strati, di questi racconti decostruiti, di questo castello itinerante che è quello che sono. Quello che non sono.
E così faccio volare giù questa cicca, me la chiudo come un ennesimo pensiero, alle spalle. E mi sento un po’ solo, ora. Un po’ fragile, non c’è neanche la luna. Che non c’è mai la luna. Un lato di me che non vorresti vedere. Mi sento come nel momento prima di entrare sotto le coperte, quando le hai già alzate e sei lì a metà: nudo. Senti un tremore dai piedi. Ti senti scoperto, nel senso di visto, beccato, indifeso. Un attimo prima dell’essere veglio e l’essere morto. Mi sento così, come quando sei con la spalla mezza piegata e il gomito sul materasso: indifeso.
E il mio sguardo si fissa sull’unica parte della parete, la mia parete, dove c’è ancora del bianco. Lì, vedo noi, ora. Vedo tutta la tua voglia di fare, partire, toccare, baciare. Vedo me, un insieme di linee che non posso definire. E un po’ mi fa sorridere, un po’ la sfumo. Un po’ cerco di metterla a fuoco, e la capisco meno. Mi chiedo fino a quanto io sia pronto ad accettare di slegarmi verso di te. Mi chiedo quanto sei bella, e sto bene. Infine, mi rispondo pure. Mi rispondo che è tutto un gigantesco gioco a cui sarebbe troppo stupido tirarsi indietro e non giocare.
Continuo a non sapere. Mi tolgo i pantaloni, la maglia, le mutante. Mi guardo dall’alto in basso. I miei piedi, i peli, le gambe, il mio pene lì, fermo. Riflessivo. Mi ricordo la pancia e le dita in gola. La barba e l’orecchino. Quella finestra, il vuoto, la notte e le scale da solo. I capelli lunghi. Sono un uomo, un aggregato di parti umane e non umane, un elemento scomposto nella ragione superiore delle cose. E dico, va bene. Tu non c’entri nulla, tu non sei altro, sei oltre. Mi aspetto poco, proprio poco. Mi aspetto un abbraccio, una carezza. La certezza che ci sei. Mi aspetto di poter imparare e, imparando, di dimenticare.
Alzo così le coperte un’ennesima volta, ma con una certezza… maggiore. Mi sento meno nudo, meno solo. Allungo la mano, chiudo la finestra, e lascio dietro di me i ragni di questo vecchio giardino.
stupido
Uno dei regali ricevuti è stato un libro di Carlo Cipolla – “Allegro ma non troppo”, che contiene un interessante saggio chiamato “Le leggi fondamentali della stupidità umana”.