Il programma per scrivere bene

 

 

Anche per scrivere, mi devo organizzare. Esistono programmi che permettono di definire i personaggi della storia a priori, i luoghi, le scene.  Ne vengo attratto, li studio. Per ognuna di queste categorie viene richiesto di inserire un insieme di informazioni, come il ruolo nella storia; la descrizione; la personalità; la dimensione dello spazio; gli oggetti; e così via. Dividono in pagine quello che devi ancora scrivere e ti permettono di compilare campi che andranno poi a formare, rispettivamente, l’intestazione, la dedica, la dicitura sul diritto d’autore. Viene prevista anche una pagina bianca, quella formale, che va a inserirsi tra la dedica e il primo accenno di storia. Mi perdo nella compilazione dei campi. Il mio nome, cognome. Il titolo, ovviamente. Scegliere un titolo, di una storia ancora da scrivere, è ridicolo (semplice) (una bazzecola). Altra cosa sceglierlo per un manoscritto compiuto ma questa è, appunto, un’altra storia. Il titolo scelto è: eleven. Undici, per gli anglofoni, ed è un titolo ovvio – una parola, in inglese, il massimo della banalità – ma allo stesso tempo rassicurante, per chi scrive. Non vincola, non delimita. E poi è un bel numero, 11. Formalmente integro, anche misterioso, a piacere. Undici come… le strade che a raggio portano sulla piazza del Rossio, coi vecchi le panchine e i tram a girare intorno, il giallo e il verde delle palme, qualcuno che nel tardo pomeriggio già si avvicina alle serrande semichiuse che da lì a poco offriranno Ginjinha. Undici come… gli sguardi che si incrociano a una fermata di metro, di cui un paio al massimo valgono la pena di, sarà per i capelli corti, o, undici come le frasi incompiute che sfiorano le orecchie, alla stessa fermata di metro. Undici papi, undici crimini consequenziali ed efferati. Undici come… le ore del giorno che vale la pena lasciare semplicemente andare, senza darci poi troppo peso, sulla schiena, così, che ne arriva poi una che sembra come quando la carta si avvolge su sé a chiudere il pacco, precisamente, allinea la giornata per poi andarsene così come è arrivata. Il titolo dell’opera non scritta è aperto, lo è per forza, racchiude il potenziale di qualcosa che ancora non ha preso forma perché forma non ha.

Il programma permette anche di inserire la dedica, in un apposito campo, che andrà poi ad auto-compitarsi con gli altri nel momento della creazione del file finale, il libro, il tomo. Lo dedichiamo a, la madre, il padre. La compagna o il compagno, che hanno reso possibile il nostro scrivere supportando nei-momenti-in-cui. All’amico ritrovato, un nome inintelligibile ai più. A D., a C. Lo dedichiamo con una frase semplice che comunichi a tutti i lettori, o che arrivi solo agli intestatari, della dedica. Si possono compilare schede-personaggio. Queste sono un po’ più difficili. Nome: Ernesto. Età: Trentina a metà (scriviamo proprio così). Descrizione: (non sappiamo che dire. I caratteri fisici non sono ancora chiari. Diciamo solo) Uomo solo, mille progetti, vita intricata. Intravediamo qualcosa dietro alla nube ma non sappiamo ancora definire. In ogni caso, non compiliamo altre schede personaggio – sono difficili e, ci diciamo, uno basta, per ora, non è il caso.

Possiamo attribuire delle tag, brevi parole in codice per delineare una scena, un carattere, un’inflessione. Formattare un template che ci dica quante parole per ogni capitolo, quanti paragrafi, a capo, sillabe. (Ero più giovane e frequentavo l’Istituto di Ragioneria. Le letture erano un modo per fuggire dal raziocinio aberrante della partita doppia. Ricordo che mi dedicavo più che altro ai classici, non avendo risorse – intellettuali – per accedere ai contemporanei. In quel periodo si faceva un gran parlare, però, di questa giapponese, Banana Yoshimoto. Incuriosito andai a comprare un suo romanzo, Universale Economica Feltrinelli, quando avevano le copertine di cartone a listelle fini. Ecco: Banana Yoshimoto certamente aveva impostato la lunghezza d’ogni capitolo a priori. Erano tutti uguali. Tutti. Quattro pagine e mezza, cinque. Quello fu l’ultimo romanzo che lessi di Banana Yoshimoto. Leggendo una sua intervista scoprii, qualche tempo dopo, che le sue giornate erano razionalmente divise per numero di parole da scrivere, tot al mattino tot alla sera. Ricordo che chiusi la rivista pensando che quello era definitivamente l’ultimo romanzo che avrei letto della stessa). Si può decidere, infine, la tipologia di prodotto finale. Manoscritto (con apposito campo in cui inserire il nome del proprio Agente), paperback novel e, ovviamente, ebook. Quest’ultimo è particolarmente interessante perché permette di costruire il layout di copertina, immagine compresa. Il layout predispone il campo in cui inserire il titolo della propria opera. Noi, lo si è detto, abbiamo scelto eleven. Il pro-forma cita, testuali inglesi parole, “My great novel”.

Ora, il programma è settato. Abbiamo speso qualche ora e siamo piuttosto soddisfatti del risultato finale. Ce lo rigiriamo per mano: abbiamo un titolo (click), un personaggio (click), abbiamo una mezza idea di quanti capitoli (click), parole (click), dell’inflessione (click). Abbiamo una dedica (click) e una copertina (click). Salviamo una copia di backup che non si sa mai e apriamo il primo file, lo chiamiamo, Capitolo primo. Davanti a noi un foglio bianco latte digitale, sul lato sinistro il diagramma dei capitoli, su quello destro l’immagine di copertina, i personaggi, e uno spazio per inserire una descrizione. Fissiamo il bianco che è proprio abbacinante, e a guardarlo bene, ma dritto, fa quasi vomitare. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove – sono cinquantotto, in un minuto, i lampeggii della barra verticale che è l’unica cosa che per ora si muove. La guardiamo ancora un po’, il bianco, il vuoto. Siamo lì immobili e aspettiamo che qualcosa dentro di noi scatti e si inserisca alla perfezione nel meccanismo del programma che qualcun altro, per noi, si è curato di disegnare. Uscirà un romanzo stupendo, intitolato eleven, un fiume in piena di un solo personaggio complicato et complesso, una paperback novel che sarà (click) anche un ebook, con dedica criptica ma inevitabilmente uguale. Nella forma, in sostanza. Uguale a tutte le altre degli altri, come le storie, i personaggi, gli intrecci i diagrammi. Il nostro flusso è codificato. Ma noi di questo (siamo scrittori, siamo lettori) non ci possiamo curare e compitiamo un messaggio senza averlo immaginato.

 

(Nota finale.

Il programma per scrivere bene è il programma per sovvertire il programma per scrivere bene)

Circondariale

Ernesto esce di casa, le spalle tappate da una sciarpa, una giacca, una mantella che è lunga un colore marrone. Esce di casa in macchina, Ernesto, accende la radio. Alla radio passano un pezzo di Prokofiev, lui sa che è Prokofiev perché da ragazzino amava il gelo la Russia e Pasternak. Sono collegamenti che si fanno su un divano quando scende la sera, un libro con la copertina rigida rossa, allora. La macchina è fredda, la brina sul vetro, l’alito fa le ostie a ogni sospiro. E’ una macchina fatta al suo paese, il paese di Ernesto. Il cambio che va in folle tra la seconda e la terza che lascia girare il motore libero come una falena. Quel cambio l’avrà montato su Carmine, Angelo, Carmela. Mentre pensavano chissà-a-cosa. Alle braciole delle domenica, alla gola, di Angelica, a quel passaggio irrisolto della: Settimana Enigmistica. Non è colpa loro, non può esserlo – è l’impianto, la mole, il tempo. La fresatura del pezzo. L’imbonitura dell’acciaio straniero, cinese. Mette in moto, non parte. Prokofiev ondeggia, nel senso delle braccia, le spalle, per dare fiato agli ottoni e aria alle viole. Una caduta, un silenzio, si accende il motore.
Il fumo bianco traccia un gioco di gas che partono insieme e poi si disperdono, come code di stelle-di-natale, arrivano fino al capannone, alla rimessa, e alcune gocce arrivano su fino alla ventola del bagno ci entrano dentro e vanno a guardare la moglie, un gesto ripetuto a mettere un reggiseno bianco a cui non crede più. Retromarcia, Ernesto. Pomello rigido su base instabile, volante che scotta di ghiaccio e vetro che al calore, il vetro, si appanna ancora di più. Barba, sopracciglio ricco, piede folto e addome un poco scucito, figura tutto insieme ben disposta ed eretta. Ancora per poco, Ernesto, un sospiro. La prima, ingranare lungo una breve salita di ghiaia compatta e lasciarsi alle spalle la casa monofamigliare mono piatto mono stereofonia, antenna satellitare.
Ernesto si ferma un momento all’incrocio tra la via di casa e la strada principale, l’ingresso che lo porta in circolazione, una potenziale biforcazione verso l’infitto, ogni giorno ogni momento ogni istante, lì a portata di naso. Non arriva nessuno. Il vetro è più chiaro, si vedono i campi con gli alberi spogli e il marrone, il sole che sorge e sa già di giorno passato. Sa di ieri, questo è ieri. Lo dice anche Prokofiev nel suo ripetere il motivo, lui lo sa, ne è sicuro, e lo trasmette col vigore di una banda di perversi vestiti di nero e di frac. L’incrocio è  passato. Come l’infinito, e il naso. Svoltare a sinistra, trecento metri, a destra. Le case non si guardano e non c’è altro, solo uno sguardo rapido a un appartamento dove viveva, un tempo, una ragazza a cui aveva fatto il filo, Ernesto. In modalità principiante, un orso di pezza dei fiori. Auguri. Lei che ride, dietro arriva un’altra macchina e un ragazzo con un maglia a maniche corte e dei jeans. Fa la rotonda, ora, una lingua di cemento che costeggia un campo da calcio una chiesa minuscola, un bosco e poi la Provinciale. Un chilometro scarso, un cavalcavia, i segni di un campo con stecchi piantati qualche mese prima che ora sono rigidi come indici rivolti verso la dorsale del cielo. Ma questo non lo pensa, Ernesto, lui guida e sta solo tra gli archi e l’ingresso del tamburo, chissà quante volte Prokofiev avrà guidato per andare al lavoro. Zero. Sulla Provinciale, meno uno.
Ernesto percorre gli ultimi metri lungo le inferriate rossicce piano, guarda il monolite antracite piantato nel mezzo del nulla con la coda dell’occhio, e vede che il marciapiede è d’asfalto, vede che le insegne sono un poco arrugginite, sa che le linee che delimitano i parcheggi se ne stanno per andare via, passite. Ma questo non è quello che fa un uomo, questo fa il destino. Parcheggia la sua auto a sinistra, smonta, sbatte chiude. Varca il cancello pedonale e fa un cenno di saluto al sorvegliante che ricambia. Alza lo sguardo in alto, il gelo ha coperto anche le stelle, con il cielo, le inferriate della quarta sezione hanno la brina e la sua divisa, ora, sembra fatta di carta, pronta per prendere fuoco, come la mano al volante, le piante che puntano l’indice, Prokofiev interrotto al soffocare brusco del motore. La libera circolazione. Ernesto entra nella Casa Circondariale, si sistema la cintura, i ragazzi sono già allineati per scendere alla mensa per fare colazione.

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Rubinstein

Mi sono dovuto alzare per regolare il volume del mio amplificatore, nero, ruotare le grande manopola per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein leggere sulle note scritte con il culo dell’oca da mastro Chopin, Chopin, che nome già di-per-sé inequivocabilmente retrò. Sovrastare i bicchieri dei vicini, le loro televisioni, e quelle voci che sono sempre a metà tra lo stupito lo stupore che rimbalzano sul parquet, fanno l’amore con una striscia di cemento poco armato e vengono da me. Riempono i buchi, la malta fatta male, lì un po’ si disperdono, un po’ passano, ed eccomi qui che mi alzo per le loro scoregge serali per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein da un vinile un amplificatore. Le voci, gli squittii dei bambini, quelli non si possono coprire, proprio no, sono immensamente più grandi di me di questa stanza del palazzo intero e di Dio, che non c’è, ma è comunque, inequivocabilmente, lui. La febbre mi sta coccolando, è lei che ha i seni turgidi per me questa sera, la febbre, mi fa stare bene. Si è avvicinata senza chiedere permesso e mi ha avvolto, lei, una cicciona, con quelle sue tette enormi e un fondoschiena morbido sapore-del-burro. E’ stretta a me, qui, non se ne va, grassa matriosca dai rotoli rosa che scendono giù, mi scalda, e a tratti ho delle erezioni, a tratti mi rendo conto che si tratta solo di difetti, piaghe dei miei pantaloni sporchi lebbrosi. La febbre, mi tiene compagnia, Rubinstein fa la sua parte, i messaggi che continuano a suonare, continuano a suonare. Come viatico della febbre girano loro, attraversano le strade, i ciotoli i bidoni le piazze e arrivano a me: che suono. Sono un uomo chiuso, c’è la grande cicciona, con queste ombre delle mie dita che sembrano ricalcare il lavorio di Rubinstein ma questo lo dico solo, posso dirlo solo, perchè non capisco niente di pianoforte, musica e corde – le nostre corde. Niente di come si sta insieme, all’oggetto. Niente, delle sue scale, dei suoi cazzi-per-mostra-niente, e così me ne resto solo con le dita che fanno su e giù sulla tastiera, convincendomi poco, accarezzando il seno della febbre mia turgida e aspra come la cellulite; il pelo del limone; una sera come questa che manco Rubinstein, dico io, che manco Rubinstein riesce a suonar.
Chiudo lo schermo, scendo dal letto faccio tre passi e sto già tenendo in mano la chiave. E come il mio cazzo, enorme, fine fine sottile cacciavite d’acciaio per le porte dei microbi e delle illusioni: Apro la porta e mi ritrovo su un pezzo di marmo che dà sulle scale. Il tappeto, arrotolato. Il campanello, storto. La luce che mi-fa-cacare. Accanto a me, il mio vicino di casa, nella stessa posizione, con una pancia da rumeno che solo lui sa, guarda fuori dove sto guardando io e ci sono solo scale che scendono, scale che vanno su, lui ha lo sguardo cattivo che ha sempre, non mi saluta se non lo faccio io e io lascio perdere, così come lascio la porta aperta alle mie spalle mentre vado giù, affiancato da pareti verde ospedale e alte soffitta, corrimano marrone, finestre sporche nelle giunture. Vado giù, giù, ma non esco da questo palazzo, scendo ancora nelle sue viscere nella sua forma di arteria polmonare, ancora, ancora, Godiamo!, alla base della sua ragione oltre le cantine il cemento che le sovrasta, e le fondamenta di pilastri conchiglie, rappresaglie, vecchie misure. Non le avevo mai notate, io, queste scale. Quanto sono lunghe, Oh! Quando silenzio che c’è, quaggiù: solo il rumore dell’umidità e una nota, una sola, che ancora proviene dal mio amplificatore. Tentenna mi segue arriva entra e poi non c’è più, sparita, anche lei, Vado giù, ancora più giù. Un po’ mi manca, la febbre, calda e cicciona. Un po’ no, un po’ meno. Continuo a scendere e fa freddo, non c’è luce, alle mie spalle già decine di metri, lassù il mio appartamento aperto vuoto forse il rumeno-culo-di-vacca ci è già entrato. Starà cercando qualcosa. Povero uomo, a tentoni, piegato a cercare la testa che non ha battendosi le mani sul cranio, lo immagino, lo vedo. Io scendo. Mi costruisco passo a passo il motivo per cui questa sera mi sono preso l’ennesimo raffreddore bronchiale e mi reggo in piedi in silenzio. Passo dopo passo rientro nelle mie note alla radice di quello che mi fa stare meglio, la lontananza. Il bisbiglio che fa la notte chilometri sopra di me, là fuori. Tutto intorno… come un grande enorme ventaglio. Pavone. Io microbo che cerca la sua quiete, scavo, e con la mano sopra la mia testa chiudo il resto, le gente i palazzi le strade i cesti della frutta i piatti da lavare. Inarco la schiena, il passaggio è stretto. Sto ancora per un sospiro, non sento più niente, bene.

The boy in the bubble

“La superficie pare essere della stessa consistenza della guancia di mia madre quando aveva appena finito di piangere, e mi tirava su oltre le sue spalle per portarmi via di là ed io per un momento, prima di affrontare il mondo dall’altra parte della sua schiena, le sfioravo piano la pelle con la mia pelle e sentivo quello che le mie dita sentono ora: una soffice fragile frontiera di spuma. Non fa né caldo né freddo qua, la luce passa attraverso, forse attraverso anche me, ed è luce riflessa di caramello che riporta scomposte le sostanze del mondo sotto forma di colori tenui sempre diversi. Sono fermo tutto il giorno a guardarle e immaginarle queste sostanze, ci gioco con la punta delle dita le tiro a me e le mollo, le lascio partire e andare, lente nell’aria fino a quando si aggiungono alla parete della bolla. Ingrossandola. Che ci faccio qua dentro, non lo posso sapere. Io resto qua, attraggo e mi lascio catturare. Prendo in mano la luce che entra e la rispedisco un po’ qua e un po’ là. E’ l’unico senso che mi do, ma è un senso maggiore, è quello di immaginare che tutto quello che entra sia qualcosa di buono: immaginarne la forma, l’odore, sostanza, spessore. La superficie di questa bolla lo so, è fragile. Sembra il momento prima che la terra scosti la tenda del sole per fare spazio alla notte, lo spazio tra due mani che stanno per fare il loro suono di clack, la matrice che tiene unita i numeri primi a un sottoinsieme di potenze maggiori: sembra, la bolla, un giardino di curve boleane dove io posso continuare a immaginare il mondo che non so… ma che penso, aggiusto, costruisco senza rette. Senza piani. Libero di affondare le mani nei suoi seni e nelle sue altre sfere. La bolla è cristallo puro, una macchia nel cuore del burro più bianco dove io vivo e continuo ad affacciarmi oltre la spalla di mia madre sul mondo. La bolla è la corona corolla sopra la mia testa che mi permette di riflettere le cose con le braccia spalancate invaso di luce oltre i miei nervi e la schiena. La preservo con cura, con cura l’accarezzo. Io sono qui dentro. Nel fotogramma del mio occhio. Io lì vengo. Proteggo. Accarezzo la superficie oleosa di un’immaginazione che va oltre me, e ancora sono di sogno.”

fondamentalmente

Fondamentalmente è l’avverbio che usi di più. Un giorno mi sono messo a contare quante volte lo impieghi. Non te l’ho mai detto, ci saresti rimasta male: la piega delle tue labbra immature mi avrebbe detto permalosità. Quindici volte, in un giorno, fondamentalmente. Può sembrare poco, a leggerlo quaggiù, ma ti assicuro che sono parecchie. Fondamentalmente, fondamentalmente, fondamentalmente, io faccio sempre lo stesso errore. Mi chiudo in cucina, accendo le candele, bevo ancora una vecchia bottiglia di whiskey che mi è stata regalata da una persona che non conosco più, ascolto Ludovico Einaudi al piano, scrivo.
Mentre sei di là, distesa sul letto. Le coperte pesanti, come doveri, ti tengono al caldo e conciliano il sonno, il tuo sonno pieno di sogni di draghi di sessi. Io al mattino me li sorbisco tutti i tuoi sogni, li ascolto mentre sei ancora mezza addormentata e fai colazione dietro ai tuoi baffi, con gli occhi spenti e l’alito tetro di ognuno al mattino, li ascolto, i tuoi sogni. E sono sempre pieni di questo e di quello, terrificanti e bellissimi, molle impazzite senza divano. Li ascolto senza pensare ad altro. Guardandoti ridere di loro e di te, impressionata dalla tua stessa immaginazione come il bambino che flautolenzia e gli si apre il cuore – perdona l’immagine, fiore. Fiore, sì, fiore: ti guardo quando ti stai per vestire. Nell’attimo prima di impazzire e fare tutto in un lampo minuto secondo, quattro cose che ti rendono calda e attraente per gli sguardi del giorno, quelli delle finestre delle gambe delle scoperte. Ti guardo, fragile tesa tra questo e quell’orizzonte. Impegni confusi, idee non chiare. Ti guardo e mai mi chiedo che ci sto a fare con te. Fondamentalmente. Fondamentalmente.
Trovare una ragione tra le dita e i tasti del piano, fiore.
Ti guardo lottare, per me, in fondo so che lo fai. Con un occhio di riguardo pur sempre rivolto altrove, lo fai, ci provi, lotti per me, lo so che lo fai. Ma sei giovane, tu. Devi sperimentare. Il tuo cuore e la tua mente non possono essere impegnati nella cura di un uomo che ha tanto di bello quanto di apparentemente qualunque. Rileggere. Fondamentalmente.
Sono debole. Sono fragile. Sono uno che si è lasciato passare in mezzo da troppe persone e troppe attenzioni vocate. E ora ritrovare me stesso, ancora una volta, provare a farlo non essendo da solo: più difficile, più duro, più marmo contro cui sbattere il muso. Mentre questa casa che abbiamo preso con le unghie questa sera è un po’ piegata su sé, un po’ spenta. Mi somiglia. Coi suoi muri alti anni ’60, un ambiente che può essere accogliente e patrigno, basta volerlo, sceglierne uno, et voilà, questa casa si trasforma come me da amabile amante a conduttura intasata e brina di notte. So cosa stai pensando, so cosa hai scritto senza leggerlo, so quante vertebre ha la tua schiena senza averle mai contate lungo tutti quei massaggi: lo so e mai mi chiedo che ci sto a fare con te, mai lo chiedo battendo le parole che ho imparato quando ero bambino, seduto sul banco da solo. Mi chiamavano cochon, porco, ciccione, e io piangevo e sapevo perfettamente che avevano ragione. Mia madre: ma sei solo robusto, Nachele. Oggi, una menzogna che non potrei più accettare. È meglio la realtà, guardiamola in faccia: sono un medio, un testa pelata grossa la faccia piegate le spalle storta la schiena, sono un finto magro largo grasso, parlo e le guance mi si gonfiano come le gonne delle mie vecchie cameriere, medio, comune, Avanti!, bruciamo la sede delle false illusioni d’essere preso sul palmo e portato per una volta alla soglia della fine dei gradi del mondo – mai ci si arriverà, non ci si può arrivare, la realtà è un’altra, per me sei questo ma oggettivamente no. Fondamentalmente, mi chiedo perché devo ancora starti a sentire, e allora mi chiudo in cucina, ti mando in bianco, e respiro con l’unico battito che mi viene naturale – la dizione digitale.
Eppure tu, tu sei la donna che amo.
Fondamentalmente non mi sono mai chiesto perché sto con te se non come espediente per il pathos di quello che scrivo, sono gemelli ascendente gemelli uno stronzo che si traveste da bambino e ti prende in giro. Se sto con te non ho bisogno di trovarmi una ragione: ci sei tu, un’abbondanza naturale.
(E questo rileggilo che fa bene come l’Omega tre o altra qualsivoglia stronzata fecale).
Tu, che sei la mia donna più bella, che sei là fuori la più bella davvero.
In discoteca, in pizzeria, sul tavolo smaltato e su quello dorato, intorno al cenacolo, lungo il balcone, a Palazzo nuovo e in Città, fra le foglie che cadono al parco, in un negozio trendy, lungo la via, tu, solo tu, sei la più bella con le tue gambe e il tuo seno. I tuoi capelli e la schiena. Tu, con quei piedi, tu e i miei occhi non hanno da cercare alcun paragone. Ora soli si spingono nel buio che divide questa cucina dalla camera tua, un buio trafitto dal riflesso delle candele sul frigo e la maniglia smaltata, vanno giù nel nero e nella coperta, fino a spegnersi poco prima di arrivare con un soffio argentato alla tua testa.
Vorrei avere più coraggio di quello che ho. 
Sentirmi ferito ma riuscire ad alzare la testa per dirti che in fondo hai ragione. 
Lo farei solo con un abbraccio, lo lascerei scivolare al caldo, nel letto al tuo fianco, per dirti come ti sento e ti vedo – il mio battito a tempo. Ma sono figlio di poveri sentimenti che si tingono di ampie curvature di arancione e di giallo. E allora scrivo, e per come posso, ho due dita di sincerità e una che ti canta in bilico sulle ore che portano al prossimo mattino. Fondamentalmente, mia irrequietezza, ti amo.

manifestazione

Sarà stato un telo, plastica bianca, trasparente. Quello usato dai muratori da mettere in terra, là, appeso alla gru di fronte a casa mia, un telo bianco svolazzante a mezza altezza sulla torre piantata tra alcuni palazzi ormai un po’ scrostati, fatti anni ’60, cartongesso e tubi ramati. Dietro, la città, con tutti i suoi palazzi, le solite cose – il dito di mussolini con un altro telo svolazzante verdebiancorosso, sulla sinistra la mole che è un non-sense molto bello però. Esco sul balcone prevalentemente per prendere e riporre lo stendibiancheria, e fumare. Ovvio, fumare. Accendo, inspiro. Butto fuori l’aria la lascio andare.
Oggi gli studenti a pochi passi da qui stanno manifestando. Si fanno trainare un po’ dalla folla di cui fanno parte, un processo interessante, una specie di domino dominio, credo. Dovrei approfondire. Mi sembra di sentirli, tendo l’orecchio: una voce gracchia da un megafono, la sento male. Poi afferro meglio Arance 3 euro la cassa, signore! Il tipo gira col suo furgoncino in questo quartiere. Ha l’alito che sa di vecchio e le mutande a quadri. Solo 3 euro belle le arance signore! Un’altra forma di manifestazione. Continuo a fumare.
Manifestare è una sorta di allenamento, un’esperienza da fare. Il petto si gonfia, scorre sangue nelle vene, sai di questo e di quello parli guardi ti fai guardare. Quante volte l’abbiamo fatto? Non capisco ora se provo per questi poveri studenti che scrivono compiti da 13 a cui si dà 18 per commiserazione (e voglia di vederli andare via) compassione o commiserazione. Probabilmente nessuna delle due: fanno quel che credono giusto fare ora, qui, in questo autunno, loro. Bene.
Continuo a fumare mentre guardo il telo che schiaffeggia la gru. Sbatte e si ritrae, torna alla carica poi il sole ci passa attraverso e lui lo apre e lo chiude. Legato al suo bastione, a volte cade, moscio. Si riprende, sbatte. Ritrae. Manifestazione.
Gli studenti vanno scemando per le strade. Sono andati un po’ da Ciro Pizza, un po’ al Bar degli Artisti, un po’ a scopare come ricci nelle loro mansarde senza riscaldamento. Sono coiti mediocri, brevi. Al loro posto, mentre spengo la sigaretta contro la ringhiera, sento ronzare intorno a questi palazzi il vespino Belle le arance, signore! con quella voce gracchiante che entra nei cortili fatti di cemento e lamiera rimbombando: arance, signore… nce, ore… e, e… Il sole va calando anche lui, fa un arco sul mondo e sulle vetrate che, scintillando come quando si apre un’arancia gialla e succosa, mi indicano la via della rivoluzione: la costanza del vespino, la costanza della routine, di un megafono, di un odore. Chiudo la finestra alle spalle e torno a studiare.

A quattro mani

(Eleonora Mignoli)
***

Continuo ad amarti.

ascolto la batteria che fa il legno nel camino, è un popcorn per poveri senza popcorn
Continuo ad amarti, e sono qui, nel mezzo di questa sinfonia fatta di noi. Ti guardo.
ascolto anche altri suoni. Stanno tra le zampe del gatto e la coperta. La pioggia là fuori. Sono con te, la cassa di risonanza migliore. Accendo una sigaretta invisibile e ti prendo la mano.
Continuo ad amarti. La mattina, subito fuori dai sogni, quando mi sveglio d’apnea e d’angoscia, tu ci sei. E tra le tue mani si stemperano le mie paure.
ascolto un minuto di sospensione, ora. Il minuto che si regge tra le cose che fai per me e quelle che faccio per te. E’ il minuto del vuoto nero sotto il mobile – della scatola di latta chiusa – dell’ombrello nel ripostiglio. Il minuto sconosciuto, lo ascolto, ora, e ora con te quel minuto non fa più paura. 
Continuo ad amarti. E’ un continuare che si espande in direzioni di nuvola, un sotto e un sopra rovesciati. Continuo ad amarti, come ti amavo quando ancora non c’eri – ma già ti avevo dentro. Dentro alle piccole cose, tu ci sei sempre stato.
ascolto le tue unghie. 
Continuo ad amarti, sulle corde di un violino infinito. Io. Continuo. E’ dolce, questa tensione, questa linea che mi attraversa. Non finisce. Tu mi attraversi.
ascolto le tue ciglia. Ho le gambe incrociate.
ascolto il tuo seno. Ho le labbra imbrigliate.
Sto per prendere di petto questa nostra situazione. Ho le mani come bocche allappate.
Continuo ad amarti. Posso solo smettere di battere qui, e battere sugli scogli del tuo essere, così vicino. Così vicino.
Così.
Vicino.
Tremare perchè finalmente ti ho vista. Tremare perchè finalmente ho il coraggio di mettermi dentro. Lasciare stare ogni motivo d’ascolto, chiudere con la lettera circolare che mi unisce a te per ogni prossimo giorno. Grazie, LeO. (con un afflato dalle labbra il personaggio sussurra t’amo).
Così.
Vicino.


***


(Michele)

Expectations (l’albero di mele)

(colonna sonora: http://www.youtube.com/watch?v=2IRSeisLf1s)

L’hanno potato. C’è solo un ridicolo insieme di rami e cielo ora, là fuori. Stanno lì, insieme, un po’ spauriti un po’ spaesati, si tengono per mano quasi a coprire la verginità del legno rimpiangendo le foglie che furono. Di mele, neanche l’ombra. L’uomo con la camicia a quadri se le è portate via. Magari se le è mangiate sul suo camion scassato, o le ha messe in un pentolino con due dita d’acqua e si è fatto melecotte. Avrebbe fatto bene ad aggiungerci del Porto, ma qui non si trova, il Porto. Ha tagliato anche le rose, l’uomo con la camicia a quadri. Erano gialle, limpide gialle nel mio giardino. Neppure il tempo di una fotografia e due cesoie se le sono portate via. Spero in un vaso, a dirla tutta, o in un dono. O anche al cimitero, perchè no? Rose gialle sulla tomba di uno sconosciuto, posate gentilmente da un uomo grasso che per saluto… ti volge le spalle.
Questo giardino è ora irrimediabilmente violato. Ha meno pathos di giungla, ha meno ho-qualcosa-da-dirti di quello che aveva nel suo essere scomposto, anarchico, abbandonato. Ora sta lì, qualcuno si è preso cura di lui, pur avendo fatto un lavoro approssimativo: l’erba ancora alta ai bordi, le pietre della conca artificiale spostate, il cane di plastica riverso in un angolo. Un lavoro decisamente sotto le aspettative, le tue, le mie – evidentemente amorfe. Ha messo due sedie però, l’uomo con la camicia a quadri. Due sedie e un tavolino, in mezzo a questo piccolo spazio di verde rigorosamente cintato. Sono due sedie e un tavolino che in qualche modo rendono tutto più semplice, più sicuro. Bisogna riconoscerlo, dargliene atto.
Io esco e vado là e mi siedo. Ho il mio bicchiere di whiskey e le mie sigarette, i fiammiferi e la luna coperta dalle nuvole che comunque, a suo modo, c’è. Scendo sempre intorno alle nove, dieci di sera. I vicini dormono, i miei coinquilini studiano, i miei coinquilini dormono, e io mi sento perfettamente a mio agio là in mezzo, solo. Alla mie spalle, la staccionata di legno che mi divide dal resto del mondo. Davanti a me l’albero di mele stuprato. Sotto i miei piedi delle mattonelle bianche e nere, che vanno a morire nell’erba tagliata con la fretta di abbandonare il campo di gioco. Il whiskey è magico, in questi momenti. Lontano da casa. Lontano da voi. Lontano da un mondo di cui sento, poveramente, la mancanza. Accendo una sigaretta e mi piace tirarla, farla venire, sentirla crepitare nel silenzio della notte in questo giardino spoglio, strappato, asciugato. Passo sotto la lingua un abbraccio di Glenmoriange, ho bei ricordi. Aspettative per il futuro, ansie, zero. Solo la pelle, la carne e i nervi di questo presente.
Allargo le braccia dopo aver inalato, mi distendo. Grande la notte, grande invenzione. Grande la fuga, grande trovata. Mi fermo a guardare l’albero senza le mele, e non so cosa potermi aspettare. Attendo un segnale, un tocco di vento, qualcosa che sposti il tasto, quello blu, quello rosso dentro di me, verso serenità assoluta.
Ma poi lascio perdere, distolgo, è un delirio. Serenità per chi? Serenità per cosa? Meglio continuare così, incrociare le gambe e lasciare scorrere il tempo e lo spazio, tessere in un piccolo angolo. Fumare, e bere. Gli altri che corrano, incapaci di vedere. La bellezza, il succo, lo spago dentro a cose minuscole. Povere. Nuove.
Quando l’uomo con la camicia a quadri ritornerà lo guarderò sul suo naso patatone e gli chiederò tre cose. Che fine hanno fatto le rose. Se crede sia giusto che l’albero, dopo quello che gli abbiamo fatto, continui a darci le mele. E se lui la luna, in fondo, la vede. O se la sente soltanto, muoversi intorno. Come capita a me quando fumo, e la sua ombra si appoggia alle mie spalle. Quando sono solo, sto bene, e non credo che siano poi così rilevanti, queste mele.

I ragni del mio giardino

Sono sceso in cucina per farmi un toast. Per produrlo. Pane in cassetta comprato da Tesco, impastato lamiera, in qualche orribile fabbrica del sud est dell’Inghilterra. Formaggio tipo feta, quello economico, denominato “formaggio salato”. Sempre comprato da Tesco, e prodotto chissà dove, con chissà quale bestia, chissà quale follia. Sono sceso in cucina e non ho acceso la luce che qualcosa, anche se sono le due, ancora filtra dalla finestra. Qualcosa di riflesso. Qualcosa che in effetti, per quanto banale sia, è proprio colore d’argento. Ho fatto il toast, l’ho prodotto, ho mangiato. Tutto in un silenzio da carta di giornale non sfogliata. Tutto in un sottilissimo vuoto tra me, la notte e il prossimo giorno. Ho deglutito, cestinato le briciole. Mi sono lasciato alle spalle le porte della cucina, della sala, e sono risalito in stanza, nella mia stanza. Lì, sul tappeto fine marrone, ho acceso due cose: una candela, la mia sigaretta. Ho inalato, espirato. E sono andato verso la finestra con una certa voglia a metà.
Dalla finestra, non vedo la luna. La luna, non la vedo quasi mai. Lì mi sono messo a pensare, volutamente, consciamente. Ho pensato che sono un aggregato di cose che non mi appartengono, ma che mi porto dietro, ma che mi entrano dentro. Quello che vesto, quello che sento, quello che compro. Tutto entra dentro, tutto dentro di me, a far parte di me: nelle vene nei polsi, nei nervi. Sotto i capelli. Nella mia mente. Ne sono affranto, estenuato, stanco. Mi comprano, mi creano. E non se ne rendono neppure conto. Sono abbastanza contento, al contrario, di quello che dico: perchè sto quasi sempre zitto. Silente. Mia madre da bambino mi diceva: piangi sempre. Ora che non mi può sentire dentro, sarebbe felice.
Ho finito la mia sigaretta, e il vento, immediato, me l’ha fatto notare. Tremo. E non posso stare fermo lì, alla finestra, senza far niente. Ma non è per il tremore. E perchè… mi hanno insegnato così. Mi hanno insegnato che se inizio ad amare una persona, devo mettere le mani avanti. Mi hanno insegnato che contemplare è, di per sé, un ozio per una classe a cui non appartengo. (E chi me le avrà insegnate mai queste cose, se non l’uomo che fa il mercato?). In ogni caso, io ho un’intelligenza superiore alla media, e ho trovato le mie vie di fuga: faccio qualcosa, mi tengo occupato, e posso pensare e guardare. Quindi, mi accendo un’altra sigaretta.
Mi affaccio. Fuori il mio giardino pare una giungla cattiva, perchè non vorrebbe essere giungla, non è stata programmata per quello. E perciò si incazza con me, che non la curo, che non me curo, e crea ragni, e altri animali e insetti terribili che non vedono l’ora di violentarmi con la loro rabbia di personaggi in cerca d’autore. Dovrei tagliarlo, potarlo, amarlo, appassionarmici: renderlo urbano. Ma io sto pensando al Napalm in questo momento. I ragni del mio giardino devono morire. Tutti. E sto pensando anche – fumo con la sinistra e non mi lamento – che vorrei sentirmi dire da te, in questo momento, tante cose. Tutte quelle cose di cui ho bisogno, tutte, insieme, come un abbraccio, come una certezza. Io di certezza te ne darei tanta, posso farlo, ne ho come sigarette, all’infinito, che posso non mangiare, per fumare, io. Ma la luce riflessa e in fondo anche i ragni del mio giardino non curato, mi dicono che non posso chiederti nulla, nulla di più. Che non posso pretendere nulla, nulla da te. Che dobbiamo solo scoprirci, come due cipolle. Le cipolle che nel giardino non ho, perchè non le potrei sopportare. Le cipolle di questi pensieri a più strati, di questi racconti decostruiti, di questo castello itinerante che è quello che sono. Quello che non sono.
E così faccio volare giù questa cicca, me la chiudo come un ennesimo pensiero, alle spalle. E mi sento un po’ solo, ora. Un po’ fragile, non c’è neanche la luna. Che non c’è mai la luna. Un lato di me che non vorresti vedere. Mi sento come nel momento prima di entrare sotto le coperte, quando le hai già alzate e sei lì a metà: nudo. Senti un tremore dai piedi. Ti senti scoperto, nel senso di visto, beccato, indifeso. Un attimo prima dell’essere veglio e l’essere morto. Mi sento così, come quando sei con la spalla mezza piegata e il gomito sul materasso: indifeso.
E il mio sguardo si fissa sull’unica parte della parete, la mia parete, dove c’è ancora del bianco. Lì, vedo noi, ora. Vedo tutta la tua voglia di fare, partire, toccare, baciare. Vedo me, un insieme di linee che non posso definire. E un po’ mi fa sorridere, un po’ la sfumo. Un po’ cerco di metterla a fuoco, e la capisco meno. Mi chiedo fino a quanto io sia pronto ad accettare di slegarmi verso di te. Mi chiedo quanto sei bella, e sto bene. Infine, mi rispondo pure. Mi rispondo che è tutto un gigantesco gioco a cui sarebbe troppo stupido tirarsi indietro e non giocare.
Continuo a non sapere. Mi tolgo i pantaloni, la maglia, le mutante. Mi guardo dall’alto in basso. I miei piedi, i peli, le gambe, il mio pene lì, fermo. Riflessivo. Mi ricordo la pancia e le dita in gola. La barba e l’orecchino. Quella finestra, il vuoto, la notte e le scale da solo. I capelli lunghi. Sono un uomo, un aggregato di parti umane e non umane, un elemento scomposto nella ragione superiore delle cose. E dico, va bene. Tu non c’entri nulla, tu non sei altro, sei oltre. Mi aspetto poco, proprio poco. Mi aspetto un abbraccio, una carezza. La certezza che ci sei. Mi aspetto di poter imparare e, imparando, di dimenticare.
Alzo così le coperte un’ennesima volta, ma con una certezza… maggiore. Mi sento meno nudo, meno solo. Allungo la mano, chiudo la finestra, e lascio dietro di me i ragni di questo vecchio giardino.