I ragni del mio giardino

Sono sceso in cucina per farmi un toast. Per produrlo. Pane in cassetta comprato da Tesco, impastato lamiera, in qualche orribile fabbrica del sud est dell’Inghilterra. Formaggio tipo feta, quello economico, denominato “formaggio salato”. Sempre comprato da Tesco, e prodotto chissà dove, con chissà quale bestia, chissà quale follia. Sono sceso in cucina e non ho acceso la luce che qualcosa, anche se sono le due, ancora filtra dalla finestra. Qualcosa di riflesso. Qualcosa che in effetti, per quanto banale sia, è proprio colore d’argento. Ho fatto il toast, l’ho prodotto, ho mangiato. Tutto in un silenzio da carta di giornale non sfogliata. Tutto in un sottilissimo vuoto tra me, la notte e il prossimo giorno. Ho deglutito, cestinato le briciole. Mi sono lasciato alle spalle le porte della cucina, della sala, e sono risalito in stanza, nella mia stanza. Lì, sul tappeto fine marrone, ho acceso due cose: una candela, la mia sigaretta. Ho inalato, espirato. E sono andato verso la finestra con una certa voglia a metà.
Dalla finestra, non vedo la luna. La luna, non la vedo quasi mai. Lì mi sono messo a pensare, volutamente, consciamente. Ho pensato che sono un aggregato di cose che non mi appartengono, ma che mi porto dietro, ma che mi entrano dentro. Quello che vesto, quello che sento, quello che compro. Tutto entra dentro, tutto dentro di me, a far parte di me: nelle vene nei polsi, nei nervi. Sotto i capelli. Nella mia mente. Ne sono affranto, estenuato, stanco. Mi comprano, mi creano. E non se ne rendono neppure conto. Sono abbastanza contento, al contrario, di quello che dico: perchè sto quasi sempre zitto. Silente. Mia madre da bambino mi diceva: piangi sempre. Ora che non mi può sentire dentro, sarebbe felice.
Ho finito la mia sigaretta, e il vento, immediato, me l’ha fatto notare. Tremo. E non posso stare fermo lì, alla finestra, senza far niente. Ma non è per il tremore. E perchè… mi hanno insegnato così. Mi hanno insegnato che se inizio ad amare una persona, devo mettere le mani avanti. Mi hanno insegnato che contemplare è, di per sé, un ozio per una classe a cui non appartengo. (E chi me le avrà insegnate mai queste cose, se non l’uomo che fa il mercato?). In ogni caso, io ho un’intelligenza superiore alla media, e ho trovato le mie vie di fuga: faccio qualcosa, mi tengo occupato, e posso pensare e guardare. Quindi, mi accendo un’altra sigaretta.
Mi affaccio. Fuori il mio giardino pare una giungla cattiva, perchè non vorrebbe essere giungla, non è stata programmata per quello. E perciò si incazza con me, che non la curo, che non me curo, e crea ragni, e altri animali e insetti terribili che non vedono l’ora di violentarmi con la loro rabbia di personaggi in cerca d’autore. Dovrei tagliarlo, potarlo, amarlo, appassionarmici: renderlo urbano. Ma io sto pensando al Napalm in questo momento. I ragni del mio giardino devono morire. Tutti. E sto pensando anche – fumo con la sinistra e non mi lamento – che vorrei sentirmi dire da te, in questo momento, tante cose. Tutte quelle cose di cui ho bisogno, tutte, insieme, come un abbraccio, come una certezza. Io di certezza te ne darei tanta, posso farlo, ne ho come sigarette, all’infinito, che posso non mangiare, per fumare, io. Ma la luce riflessa e in fondo anche i ragni del mio giardino non curato, mi dicono che non posso chiederti nulla, nulla di più. Che non posso pretendere nulla, nulla da te. Che dobbiamo solo scoprirci, come due cipolle. Le cipolle che nel giardino non ho, perchè non le potrei sopportare. Le cipolle di questi pensieri a più strati, di questi racconti decostruiti, di questo castello itinerante che è quello che sono. Quello che non sono.
E così faccio volare giù questa cicca, me la chiudo come un ennesimo pensiero, alle spalle. E mi sento un po’ solo, ora. Un po’ fragile, non c’è neanche la luna. Che non c’è mai la luna. Un lato di me che non vorresti vedere. Mi sento come nel momento prima di entrare sotto le coperte, quando le hai già alzate e sei lì a metà: nudo. Senti un tremore dai piedi. Ti senti scoperto, nel senso di visto, beccato, indifeso. Un attimo prima dell’essere veglio e l’essere morto. Mi sento così, come quando sei con la spalla mezza piegata e il gomito sul materasso: indifeso.
E il mio sguardo si fissa sull’unica parte della parete, la mia parete, dove c’è ancora del bianco. Lì, vedo noi, ora. Vedo tutta la tua voglia di fare, partire, toccare, baciare. Vedo me, un insieme di linee che non posso definire. E un po’ mi fa sorridere, un po’ la sfumo. Un po’ cerco di metterla a fuoco, e la capisco meno. Mi chiedo fino a quanto io sia pronto ad accettare di slegarmi verso di te. Mi chiedo quanto sei bella, e sto bene. Infine, mi rispondo pure. Mi rispondo che è tutto un gigantesco gioco a cui sarebbe troppo stupido tirarsi indietro e non giocare.
Continuo a non sapere. Mi tolgo i pantaloni, la maglia, le mutante. Mi guardo dall’alto in basso. I miei piedi, i peli, le gambe, il mio pene lì, fermo. Riflessivo. Mi ricordo la pancia e le dita in gola. La barba e l’orecchino. Quella finestra, il vuoto, la notte e le scale da solo. I capelli lunghi. Sono un uomo, un aggregato di parti umane e non umane, un elemento scomposto nella ragione superiore delle cose. E dico, va bene. Tu non c’entri nulla, tu non sei altro, sei oltre. Mi aspetto poco, proprio poco. Mi aspetto un abbraccio, una carezza. La certezza che ci sei. Mi aspetto di poter imparare e, imparando, di dimenticare.
Alzo così le coperte un’ennesima volta, ma con una certezza… maggiore. Mi sento meno nudo, meno solo. Allungo la mano, chiudo la finestra, e lascio dietro di me i ragni di questo vecchio giardino.

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