Siamo stati (Tangenziale)

Siamo stati a piedi lungo la tangenziale,
le ciglia della tangenziale,

e palpebre di cemento
e iride sputata negli incavi SOS,

Siamo stati a piedi coi piedi a mollo, l’asfalto,
passando accanto a donnole in coda
a sovrastarci come campi minati,
coi loro sportelli illuminati

e i loro occhi bagnati

e calendari di ragazze mai
vissute mai passate di qua, Siamo stati
sotto un cielo così –
e il vuoto sottostante,
con le braccia aperte poggiate lungo
i canali che fanno i raggi del sole,
solchi su campi che non
abbiamo mai visto e mai potremo
vedere,

Siamo stati lungo il guardrail, passi fermi e andare,
l’orizzonte un capriccio, la città
una serie di scale,
pizzicate le scale
da un contrabbassista nero ciccione,
banale, là sotto,
sotto le nuvole e il Gabbianone:
La città un pensiero di cui potersi non curare.

Siamo stati dove per verità di cose
dette non dette le cose
siamo ancora,
in un’aia di pianura,
con il tempo che passa perché il sudore
segna la schiena, che se avessimo schiene
meno porose non passerebbe, no,
il tempo, e abbiamo mappe
letti fiumi e diramazioni,

che seguiamo con le dita
ogni volta che capita, tu e io
in questa partitura di cemento dismessa,
senza punto di arrivo o
partenza, che ogni punto di arrivo
è lo stesso punto, della stessa circonferenza.

 

Stelle

Poesia di Michele Lancione www.shelterblues.com

 

Pensieri in fila come divieti di fumo,

a codificare l’aereo e i morti suoi,

il giardino, la posta,

Pensieri in fila come divieti

di fumo di pace, di labbra.

Ovunque si vada,

Fazzoletti

parole a metà, lacci e laccioli,

Imposizioni:

Non abbiamo libertà

di rifiuto. Corpi divelti aperti al

Firmamento,

cuciti e crocifissi

alla volta del mondo,

corpi ad arco, come l’arco delle labbra

socchiuse a fumare e succhiare

l’ultima nota

che inonda riempie e s’inarca facendo

una stella

con un poco di carta

un filtro, una strada.

La suola della scarpa che si abbassa,

divina.

Bread

 

Il seguente brano è contenuto all’interno del “Lounge Funk Beat Tape Vol:1” prodotto dal beatmaker inglese Shugmonkey. Scaricabile gratuitamente qui: http://shugmonkey.bandcamp.com. Il brano lo puoi anche scaricare su questo sito, cliccando qui.

 

Bread
Il Seroster

La prima decade è iniziata con un cordone appeso – una stanza dove il peso di me stesso era riverso tra le mani di mia madre sopra il letto – il riflesso di mio padre nella sala d’aspetto – e poi, nella culla di seconda mano, nel concreto di palazzo un bambino che fa un lago – cazzo piangi figlio mio che continui a gridare – mi alleno a fare rime madre – sono gocce di stile. E bis-bocce nel cortile con gli altri ragazzi, pantaloni nuovi rotti ginocchia a pezzi – e per pezzi di spocchia che eran sempre perfetti – erano pezzi di vetro lanciati dagli occhi. Che i vestiti coi ritocchi erano solo un’arte – come padre che parte a lavorare di notte – o le note sulle nostre ombre sparse di sera – quando la strada era nostra per toccarci la schiena.

Rit.
E dimmi questo pane cos’è
Se ce lo siamo scelti o è quello che è
Non arriva dal Signore – Signore non c’è
Ed è duro per le ore che devono arrivare
E dimmi questo pane cos’è
Se ce lo siamo scelti o è quello che è
Non arriva dal Signore – Signore non c’è
Ed è duro per le ore ancora da scontare

Nella seconda c’è poco spazio per me – grasso che spinge e maglia di lana che punge – prende forma l’appartenenza a una classe – che non è sempre quella dei compagni di classe. E allora – guardo quelli intorno a me e mi dico – che sono quello che ho – solo se voglio – o divento ciò che voglio se suono chi sono – e resto coi bro a fare stereo il mono. E allora rimo d’ago e filo – slego e me la sbrigo – rigo dritto come Lego, ma con poco ego e cado. Ma coi quattro bro, nella provincia di riso – c’è sempre alcool dove andare a sbattere il muso. E poi il lavoro, in bar, ristorante e pizzeria – a farsi il culo e ossa per andare via – ascoltando hip hop come fosse amore – a guadagnarsi ogni metro della propria evoluzione.

Rit.
E dimmi questo pane cos’è
Se ce lo siamo scelti o è quello che è
Non arriva dal Signore – Signore non c’è
Ed è duro per le ore che devono arrivare
E dimmi questo pane cos’è
Se ce lo siamo scelti o è quello che è
Non arriva dal Signore – Signore non c’è
Ed è duro per le ore ancora da scontare

E il terzo turno è, università di vita – diversa realtà della città e la partita – è aperta su campi nuovi contaminazioni di spazi testi e suoni – di pezzi misti e buoni. E si passano le sere a parlare coi fratelli – dei giorni e dei fardelli che sembrano legarci e tenerci testa bassa – lungo il Po che passa – che a liberarci sarà solo l’acqua mossa.
E la scossa è solo una partenza – dove ogni passo è una sfida alla costanza – e nella stanza dei bottoni siamo soli senza alcuno – a sentire ora il peso della cloche in mano. Già sai – che se ho rimpianti – li ripiano con antipodi e nuovi sentimenti – come quelli di ‘sto pezzo chiamato futuro – che non è altro del riflesso del presente che vivo.

Rit.
E dimmi questo pane cos’è
Se ce lo siamo scelti o è quello che è
Non arriva dal Signore – Signore non c’è
Ed è duro per le ore ancora da scontare
Ma forse questo pane non è
Non ce lo siamo scelti e arriva com’è
È l’insieme di ogni giorno – per chi sa cos’è
Che se ti guardi indietro ha un altro sapore

La prua

 

Appollaiati alle spalle del giorno

abbiamo visto una nave pirata e la nave,

rapida taglia assi e contesti, tempi e modi di scena,

tendoni, bottiglie,

ci pare sempre rifletta ma é

distruttiva.

 

Si ama avanti e dietro per

palindromo labbiale.

 

Ora siamo fermi, le braccia racchiudono gambe

racchiudono tempo, gli occhi, i sederi le

mani altrui, racchiudono odori, la pioggia

le scarpe e schiene appoggiate

alla metropolitana. Ora la nave

l’abbiamo persa di vista e

a vista annebbiata

discendiamo

di schiena

dalla sua

prua.

Il programma per scrivere bene

 

 

Anche per scrivere, mi devo organizzare. Esistono programmi che permettono di definire i personaggi della storia a priori, i luoghi, le scene.  Ne vengo attratto, li studio. Per ognuna di queste categorie viene richiesto di inserire un insieme di informazioni, come il ruolo nella storia; la descrizione; la personalità; la dimensione dello spazio; gli oggetti; e così via. Dividono in pagine quello che devi ancora scrivere e ti permettono di compilare campi che andranno poi a formare, rispettivamente, l’intestazione, la dedica, la dicitura sul diritto d’autore. Viene prevista anche una pagina bianca, quella formale, che va a inserirsi tra la dedica e il primo accenno di storia. Mi perdo nella compilazione dei campi. Il mio nome, cognome. Il titolo, ovviamente. Scegliere un titolo, di una storia ancora da scrivere, è ridicolo (semplice) (una bazzecola). Altra cosa sceglierlo per un manoscritto compiuto ma questa è, appunto, un’altra storia. Il titolo scelto è: eleven. Undici, per gli anglofoni, ed è un titolo ovvio – una parola, in inglese, il massimo della banalità – ma allo stesso tempo rassicurante, per chi scrive. Non vincola, non delimita. E poi è un bel numero, 11. Formalmente integro, anche misterioso, a piacere. Undici come… le strade che a raggio portano sulla piazza del Rossio, coi vecchi le panchine e i tram a girare intorno, il giallo e il verde delle palme, qualcuno che nel tardo pomeriggio già si avvicina alle serrande semichiuse che da lì a poco offriranno Ginjinha. Undici come… gli sguardi che si incrociano a una fermata di metro, di cui un paio al massimo valgono la pena di, sarà per i capelli corti, o, undici come le frasi incompiute che sfiorano le orecchie, alla stessa fermata di metro. Undici papi, undici crimini consequenziali ed efferati. Undici come… le ore del giorno che vale la pena lasciare semplicemente andare, senza darci poi troppo peso, sulla schiena, così, che ne arriva poi una che sembra come quando la carta si avvolge su sé a chiudere il pacco, precisamente, allinea la giornata per poi andarsene così come è arrivata. Il titolo dell’opera non scritta è aperto, lo è per forza, racchiude il potenziale di qualcosa che ancora non ha preso forma perché forma non ha.

Il programma permette anche di inserire la dedica, in un apposito campo, che andrà poi ad auto-compitarsi con gli altri nel momento della creazione del file finale, il libro, il tomo. Lo dedichiamo a, la madre, il padre. La compagna o il compagno, che hanno reso possibile il nostro scrivere supportando nei-momenti-in-cui. All’amico ritrovato, un nome inintelligibile ai più. A D., a C. Lo dedichiamo con una frase semplice che comunichi a tutti i lettori, o che arrivi solo agli intestatari, della dedica. Si possono compilare schede-personaggio. Queste sono un po’ più difficili. Nome: Ernesto. Età: Trentina a metà (scriviamo proprio così). Descrizione: (non sappiamo che dire. I caratteri fisici non sono ancora chiari. Diciamo solo) Uomo solo, mille progetti, vita intricata. Intravediamo qualcosa dietro alla nube ma non sappiamo ancora definire. In ogni caso, non compiliamo altre schede personaggio – sono difficili e, ci diciamo, uno basta, per ora, non è il caso.

Possiamo attribuire delle tag, brevi parole in codice per delineare una scena, un carattere, un’inflessione. Formattare un template che ci dica quante parole per ogni capitolo, quanti paragrafi, a capo, sillabe. (Ero più giovane e frequentavo l’Istituto di Ragioneria. Le letture erano un modo per fuggire dal raziocinio aberrante della partita doppia. Ricordo che mi dedicavo più che altro ai classici, non avendo risorse – intellettuali – per accedere ai contemporanei. In quel periodo si faceva un gran parlare, però, di questa giapponese, Banana Yoshimoto. Incuriosito andai a comprare un suo romanzo, Universale Economica Feltrinelli, quando avevano le copertine di cartone a listelle fini. Ecco: Banana Yoshimoto certamente aveva impostato la lunghezza d’ogni capitolo a priori. Erano tutti uguali. Tutti. Quattro pagine e mezza, cinque. Quello fu l’ultimo romanzo che lessi di Banana Yoshimoto. Leggendo una sua intervista scoprii, qualche tempo dopo, che le sue giornate erano razionalmente divise per numero di parole da scrivere, tot al mattino tot alla sera. Ricordo che chiusi la rivista pensando che quello era definitivamente l’ultimo romanzo che avrei letto della stessa). Si può decidere, infine, la tipologia di prodotto finale. Manoscritto (con apposito campo in cui inserire il nome del proprio Agente), paperback novel e, ovviamente, ebook. Quest’ultimo è particolarmente interessante perché permette di costruire il layout di copertina, immagine compresa. Il layout predispone il campo in cui inserire il titolo della propria opera. Noi, lo si è detto, abbiamo scelto eleven. Il pro-forma cita, testuali inglesi parole, “My great novel”.

Ora, il programma è settato. Abbiamo speso qualche ora e siamo piuttosto soddisfatti del risultato finale. Ce lo rigiriamo per mano: abbiamo un titolo (click), un personaggio (click), abbiamo una mezza idea di quanti capitoli (click), parole (click), dell’inflessione (click). Abbiamo una dedica (click) e una copertina (click). Salviamo una copia di backup che non si sa mai e apriamo il primo file, lo chiamiamo, Capitolo primo. Davanti a noi un foglio bianco latte digitale, sul lato sinistro il diagramma dei capitoli, su quello destro l’immagine di copertina, i personaggi, e uno spazio per inserire una descrizione. Fissiamo il bianco che è proprio abbacinante, e a guardarlo bene, ma dritto, fa quasi vomitare. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove – sono cinquantotto, in un minuto, i lampeggii della barra verticale che è l’unica cosa che per ora si muove. La guardiamo ancora un po’, il bianco, il vuoto. Siamo lì immobili e aspettiamo che qualcosa dentro di noi scatti e si inserisca alla perfezione nel meccanismo del programma che qualcun altro, per noi, si è curato di disegnare. Uscirà un romanzo stupendo, intitolato eleven, un fiume in piena di un solo personaggio complicato et complesso, una paperback novel che sarà (click) anche un ebook, con dedica criptica ma inevitabilmente uguale. Nella forma, in sostanza. Uguale a tutte le altre degli altri, come le storie, i personaggi, gli intrecci i diagrammi. Il nostro flusso è codificato. Ma noi di questo (siamo scrittori, siamo lettori) non ci possiamo curare e compitiamo un messaggio senza averlo immaginato.

 

(Nota finale.

Il programma per scrivere bene è il programma per sovvertire il programma per scrivere bene)

Da leccare

Caduto, scivolato là dove guardi tu e proprio

perché guardi così teso e lontano

mi era impossibile non cadere, tenere a freno la

vertigine di mano, progetti a caso,

giacche appese, posate distese,

 

intimità che viene e come venire in

una esaltazione si spegne,

e siamo già in bagno a lavarci di

dosso, l’orizzonte: cadere.

 

Ora, dove si va?

C’è troppa acqua troppo cielo

nessuna relazione,

un punto di riferimento, questa libertà,

inutile, in natura non c’è

non esiste – pare un labbiale di nuvola che

a testa in giù canta,

volare.

 

Torniamo al fondo,

al fondo del bicchiere tu e io,

a piantarlo sulla sabbia e a farci le forme,

il formaggio,

quello che vuoi. Torniamo a farci lavare il sale

dall’acqua di mare,

che ci lascia su un humus di salsedine

da leccare.

Le nostre motivazioni

Nei miei passi c’è la certezza delle mie motivazioni,
e il fatto che né passi né motivazioni siano mie
non emerge, non sovviene.

Imperterrito ho radice come bussola,
e mi muovo tra la gente così, ho direttrici e movimenti di gamba,
anca, spalla. Seguo i miei progetti e il fatto
che né passi né progetti mi appartengano
non emerge, non sovviene.

Ma oggi per un momento
ho alterato il colore, visto la profondità del tratto,
la luce che dà vita a sfumature.
Non stavo pensando,
stavo immobile e vuoto, completamente
riflettendo
che è opposto a riflettere
contemplando,
stavo

sul cornicione appoggiato.

Ero libero perché dissociato
una cosa che uno prende e butta
senza darsene pensiero, quando non ci sono
né prendere o buttare, solo un uomo
e una donna nudi
dentro, aperti al resto.

Fino a quando mi sono ricordato che,
mosso un passo verso,
e si è inchiodato
tutto.

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Notturna, 1

Questo posto fa paura la notte
coi ragni a venire su dal parquet, finestre
come fondi di bicchiere, consunte,
le labbra seccate da serate
a far serra sotto coperte serrate, quattro mandate
alla porta, i capelli una cuffia,
le ciabatte per sicurezza piegate pronte
all’espatrio.

Siamo nei sogni ora, ci siamo,
un amo lanciato a cogliere un t’amo
sulla scia di un talamo in attività.
Una casa una bara una mano, il padre
la madre, una spada. E via,
andare.

Qui sotto ti senti protetta con me
mentre sei sola tra i ragni e la notte

e fai sogni che non si possono dire
che anche il ragno piega la testa
per non doverli sentire.

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BW

Un piano è una sistemazione
di tasti alternati,
il gesso che sbriciola, la lavagna.
C’è una luce che filtra tra le parole
le lascia sospese senza riflessi o flessione,
lo schermo di latte,
e tutte le inespresse voglie scure.
Mi pare il sole visto da un treno
keniota, l’occhio di un afroamericano,
il cioccolato fondente la panna,
la gola, i denti, grande vuoto,
le sue labbra.
Una tensione,
è spento.
Accedo a una luce sparata negli occhi
che guarda dentro,
s’inghiotte, e rimane
uno stallo
del nero e del bianco.

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Ombre (Black&White)

P1020480

Nella borsa ho i contanti per uccidere l’uomo,
le spatole le spugne il Vangelo, piegato,
ho guanti che non bruciano mani
acidi per aurore boreali.

Nella testa ho un ragno secco
sta come i rami sugli alberi, a fare paura che paura
non fa. Ho due presine, quelle di casa,
mia madre le ripone sempre nell’angolo.
Là sono ancora.

Nei piedi le suole, il cappotto chiuso come
se non avesse scelta, lui, il corpo di
qualcun altro dentro al corpo mio
come una canzone.

La borsa è per terra, lo stomaco aperto,
il bidone svuotato. Penso di aprirla
come a tirare uno squarcio e tutti quei mostri
pronti liberi a uscire, gridare per aria prendere tutto
stracciare: ne escono un cappello un
cuscino, il paltò. Qui è ora di ritirarsi,
chiudere mani.
Andiamo a dormire.