Solare (II versione)

(c) Eleonora Leo Mignoli 

L’ora delle stelle già morte
gli intarsi delle serrature mai aperte
le maglie riposte e
quei segni, accumulati fra
nei sotto-la-pelle.

Sono venuto nell’ora dell’ora che ripassa e non c’è
per chiederti di aprirmi gli occhi così,
come due arance con lo spruzzo, sguaiate,
che vengono, quando hai le dita
che ci nuotano dentro.

Poi ti ho riflessa, e
mi sono voltato:

la linea bianca del battistrada era un filo
da prendere tra le dita,
la notte un colore adatto al primo giorno
in cui ti ho afferrata,
le nostre mani in bilico a rincorrersi sull’ora smarrita.

ritorno

le dita lungo il corpo e la maschera,
steso sul letto
in faccia all’armadio con le sue quattro bare
di plastica,
le maglie scomposte che
si spengono, le librerie decompongono,
le pareti si chiudono come sopraccoperte
ad alette e io
dentro,
arrotolato a pié spinto
aperto
e sputato, di nuovo, liberato con la
chiave inglese
il sudore e la
forza, per piegare ancora
origami, succinti ai miei voleri
dettami,

aquiloni che prendono il volo
carezzando le labbra inferiori
di una allargata
poesia.
              
    

sweetdreamers

nella foga di sfogliarle, le dita, 
di passarci attraverso e cucirci insieme i giorni
di leggerne il futuro tra le rughe 
che parlano di oggetti
che non hanno sfiorato mai:
immagini incorniciate di viaggi 
impreparati
post-it a puntellare percorsi
su Kartographie Freytag-Bernot unt Artaria,
fra immagini di Google
come il riflesso 
della foga della speranza.
Fuori tutto da questa finestra, 
ora,
fuori scrivania fuori incastri
fuori necessità.
Via le nostre cartoline dal muro
per rimetterci specchi che ci 
prendano per mano, brutti noi al mattino,
per dirci del nostro 
presente,
chiamarcelo, supino,
cullarci come su un’altalena che 
si muove o forse o non si muove
o entrambe.
Le gambe aperte sarebbero una v 
come scollatura sconcia 
sul tempo che deve venire
e di cui non ce ne importerebbe 
più niente…

rush

Prendere le mani carezzare i capelli, coperchio
sull’acqua che bolle, la pasta piegata, vestiti da buttare:
carte sparse e amore, fatto di rabbia,
film incastrati alla perfezione
tra le nove e mezza e le dieci, sveglia, uscire.

Le scarpe si stringono coi lacci agli
omini della polvere in attesa di
vedere le coperte sollevarsi e trovare albe nuove
ai piedi stanchi,
veloci, rapiti,
fare la spesa, abbracciarsi sul limitare
delle stanze, tra le porte, congiunzioni,
per poi ripartire, docce calde per bagnare
i capelli e gli impegni,

Ed è sul limitare del frigo che per caso tutto si ferma
sospende si tende
quando ci siamo incontrati
e non c’era più fretta, così, per caso soffice
e semplice,
dove ci siamo fatti fasciare
da questo nostro presente

Finestra, paesaggio, consolazione. L’amore
che va di fretta capita che inciampi
e si ripassi tra le labbra quello
che gli appartiene,
e per un istante ci giochi
senza guardare oltre la fine.

semplici

quante briciole può tenere 
la mia impronta digitale
quando la giro per farle cadere
e il loro moto scompagina
la luce del sole
attraverso,
questo corpo, questa mente,
con aperture che sono
rifrazioni immense
semplici come molliche di 
pane 
sparse qua è là sul tavolo scuro
dove è un continuo 
darsi da fare a prenderle
e lasciarle cadere.

GHOST!

ho visto ragni aracnofobici ballare con Thom York
una salsa 
e la salsa è sempre senza parole
appiccicata al muro come ∫˜ª e altri Fahrenheit simili
le macchine da scrivere che danno tutta un’altra impressione
alle lettere, 
la carta ruvida delle stazioni di posta, gli autogrill, 
le zanzare e i bassi nei woofer
notti di viaggio
tangenziali
ci stiamo tenendo per mano e scemando così 
lungo le creste non ruvide dei galli, rosse e gialle,
imbottiti come cuscini e coperte cucite a mano dalla mano
di una madre che abbandoniamo alle sue sere
tenute su come lo zaino sulle spalle di un barbone
che percorre le strane da Perpignan a Buenos Aires in cerca
di un equilibrio ferale:
ci stiamo tenendo per mano nel momento del risveglio
aggrappati con le bave all’ultimo sospiro del sogno
tra l’armadio che non è ancora verità e l’alito cattivo
il fantasma di un futuro che ci decidiamo 
a non comprendere, ora, qui,
girandoci come automi sui fianchi 
tendendo le braccia allargandoci
abbracciandoci 
e tornando io alle tue spalle tu al muro davanti
ad addormentarci…

della tua fisionomia

I tuoi confini non sono confini sono
terre straniere guardate a piè-spinto, frontiere:
i cori di ambulanze che tagliano in due paesi che sanno
di umido e pioppi, le piante bagnate,
raffreddate, i cani a blaterare sotto i coppi che la luna,
lei, abbraccia col suo alito enormemente giallo,
quel tuo viso,
così bambino fragile capriccioso
che si nasconde dietro le ante che sono fobie
e foibe, in cui ti getti a peso morto nei pomeriggi allungati alla spina e
chi-si-è-visto-si-è-visto, 
ma afferra: 
che ci sono altre
frontiere,
margini di miglioramento, 
frontiere in cui
ci alziamo, usciamo dai cassetti
pieghiamo gli armadi. Barcollando a dovere
nudi a dirigersi, andiamo, con le dita a
riempire i solchi del giorno, a unire i puntini dei buchi
lasciati sui muri,
mentre per fare colazione lasceremo le finestre 
spalancate a cerchi espansi di sole che
entreranno
roteeranno,
che sfioreranno 
le mie gambe una 
e una, 
e andranno poi a cadere su te come anelli
a vestire l’acquerello dolce 
della tua 
fisionomia.