Alexei

Non so cos’ho visto.
Forse, solo una macchina da té. E le porte scrostate di legno compensato. Al limite, la tua sigaretta. O le parole, provocate senza mai lasciare un silenzio un vuoto – a me troppo affini, facili e fallaci – da tua madre. O da quell’angelo di ragazza.
La cenere che veniva via come crosta di torta, la ruota d’una sedia su cui si è condensata la preoccupazione, l’ansia, di tuo fratello. Io non so cos’ho visto, Alexei del Can Can. Delle grandi terre, delle vie comuni, di un campetto di provincia torinese. Non so: ricordo solo notti insonni e l’odore del College: plastica e legno di moka.
Potrei scriverne, ora, di noi. Di noi in quell’attimo alla porta, sulla terrazza a pezzi dell’ospedale più grande e migliore, come l’angoscia. Potrei, ma non ne so, e fa un male tremendo, e me ne vergogno. Oh, Alexei: non ho un Dio, pensaci tu – che forse non puoi, ma almeno ti ho visto, ridotto così, e so che ci sei.
Ripeto, non so cos’ho visto, non lo so. E me ne vado, di nuovo.
Portandomi dentro lo spazio tra i tasti che premo
o poco
più.

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