Il programma per scrivere bene

 

 

Anche per scrivere, mi devo organizzare. Esistono programmi che permettono di definire i personaggi della storia a priori, i luoghi, le scene.  Ne vengo attratto, li studio. Per ognuna di queste categorie viene richiesto di inserire un insieme di informazioni, come il ruolo nella storia; la descrizione; la personalità; la dimensione dello spazio; gli oggetti; e così via. Dividono in pagine quello che devi ancora scrivere e ti permettono di compilare campi che andranno poi a formare, rispettivamente, l’intestazione, la dedica, la dicitura sul diritto d’autore. Viene prevista anche una pagina bianca, quella formale, che va a inserirsi tra la dedica e il primo accenno di storia. Mi perdo nella compilazione dei campi. Il mio nome, cognome. Il titolo, ovviamente. Scegliere un titolo, di una storia ancora da scrivere, è ridicolo (semplice) (una bazzecola). Altra cosa sceglierlo per un manoscritto compiuto ma questa è, appunto, un’altra storia. Il titolo scelto è: eleven. Undici, per gli anglofoni, ed è un titolo ovvio – una parola, in inglese, il massimo della banalità – ma allo stesso tempo rassicurante, per chi scrive. Non vincola, non delimita. E poi è un bel numero, 11. Formalmente integro, anche misterioso, a piacere. Undici come… le strade che a raggio portano sulla piazza del Rossio, coi vecchi le panchine e i tram a girare intorno, il giallo e il verde delle palme, qualcuno che nel tardo pomeriggio già si avvicina alle serrande semichiuse che da lì a poco offriranno Ginjinha. Undici come… gli sguardi che si incrociano a una fermata di metro, di cui un paio al massimo valgono la pena di, sarà per i capelli corti, o, undici come le frasi incompiute che sfiorano le orecchie, alla stessa fermata di metro. Undici papi, undici crimini consequenziali ed efferati. Undici come… le ore del giorno che vale la pena lasciare semplicemente andare, senza darci poi troppo peso, sulla schiena, così, che ne arriva poi una che sembra come quando la carta si avvolge su sé a chiudere il pacco, precisamente, allinea la giornata per poi andarsene così come è arrivata. Il titolo dell’opera non scritta è aperto, lo è per forza, racchiude il potenziale di qualcosa che ancora non ha preso forma perché forma non ha.

Il programma permette anche di inserire la dedica, in un apposito campo, che andrà poi ad auto-compitarsi con gli altri nel momento della creazione del file finale, il libro, il tomo. Lo dedichiamo a, la madre, il padre. La compagna o il compagno, che hanno reso possibile il nostro scrivere supportando nei-momenti-in-cui. All’amico ritrovato, un nome inintelligibile ai più. A D., a C. Lo dedichiamo con una frase semplice che comunichi a tutti i lettori, o che arrivi solo agli intestatari, della dedica. Si possono compilare schede-personaggio. Queste sono un po’ più difficili. Nome: Ernesto. Età: Trentina a metà (scriviamo proprio così). Descrizione: (non sappiamo che dire. I caratteri fisici non sono ancora chiari. Diciamo solo) Uomo solo, mille progetti, vita intricata. Intravediamo qualcosa dietro alla nube ma non sappiamo ancora definire. In ogni caso, non compiliamo altre schede personaggio – sono difficili e, ci diciamo, uno basta, per ora, non è il caso.

Possiamo attribuire delle tag, brevi parole in codice per delineare una scena, un carattere, un’inflessione. Formattare un template che ci dica quante parole per ogni capitolo, quanti paragrafi, a capo, sillabe. (Ero più giovane e frequentavo l’Istituto di Ragioneria. Le letture erano un modo per fuggire dal raziocinio aberrante della partita doppia. Ricordo che mi dedicavo più che altro ai classici, non avendo risorse – intellettuali – per accedere ai contemporanei. In quel periodo si faceva un gran parlare, però, di questa giapponese, Banana Yoshimoto. Incuriosito andai a comprare un suo romanzo, Universale Economica Feltrinelli, quando avevano le copertine di cartone a listelle fini. Ecco: Banana Yoshimoto certamente aveva impostato la lunghezza d’ogni capitolo a priori. Erano tutti uguali. Tutti. Quattro pagine e mezza, cinque. Quello fu l’ultimo romanzo che lessi di Banana Yoshimoto. Leggendo una sua intervista scoprii, qualche tempo dopo, che le sue giornate erano razionalmente divise per numero di parole da scrivere, tot al mattino tot alla sera. Ricordo che chiusi la rivista pensando che quello era definitivamente l’ultimo romanzo che avrei letto della stessa). Si può decidere, infine, la tipologia di prodotto finale. Manoscritto (con apposito campo in cui inserire il nome del proprio Agente), paperback novel e, ovviamente, ebook. Quest’ultimo è particolarmente interessante perché permette di costruire il layout di copertina, immagine compresa. Il layout predispone il campo in cui inserire il titolo della propria opera. Noi, lo si è detto, abbiamo scelto eleven. Il pro-forma cita, testuali inglesi parole, “My great novel”.

Ora, il programma è settato. Abbiamo speso qualche ora e siamo piuttosto soddisfatti del risultato finale. Ce lo rigiriamo per mano: abbiamo un titolo (click), un personaggio (click), abbiamo una mezza idea di quanti capitoli (click), parole (click), dell’inflessione (click). Abbiamo una dedica (click) e una copertina (click). Salviamo una copia di backup che non si sa mai e apriamo il primo file, lo chiamiamo, Capitolo primo. Davanti a noi un foglio bianco latte digitale, sul lato sinistro il diagramma dei capitoli, su quello destro l’immagine di copertina, i personaggi, e uno spazio per inserire una descrizione. Fissiamo il bianco che è proprio abbacinante, e a guardarlo bene, ma dritto, fa quasi vomitare. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove – sono cinquantotto, in un minuto, i lampeggii della barra verticale che è l’unica cosa che per ora si muove. La guardiamo ancora un po’, il bianco, il vuoto. Siamo lì immobili e aspettiamo che qualcosa dentro di noi scatti e si inserisca alla perfezione nel meccanismo del programma che qualcun altro, per noi, si è curato di disegnare. Uscirà un romanzo stupendo, intitolato eleven, un fiume in piena di un solo personaggio complicato et complesso, una paperback novel che sarà (click) anche un ebook, con dedica criptica ma inevitabilmente uguale. Nella forma, in sostanza. Uguale a tutte le altre degli altri, come le storie, i personaggi, gli intrecci i diagrammi. Il nostro flusso è codificato. Ma noi di questo (siamo scrittori, siamo lettori) non ci possiamo curare e compitiamo un messaggio senza averlo immaginato.

 

(Nota finale.

Il programma per scrivere bene è il programma per sovvertire il programma per scrivere bene)

illness

Ci sono una cassa e un rullante che girano sui 4/4, in genere sui 98bpm, è hip hop che ti entra proprio dentro, in circolo, che se non sei cresciuto in provincia, in ghetto o in periferia proprio non puoi capire. Non ce n’è.
A volte torna, dentro di me, da un pezzo ascoltato ormai sempre più tecnologicamente, digitalmente, a volte resta lì sopito per mesi interi. Come la voglia di scrivere su questo blog, la voglia di prendere in mano una penna in generale. E poi, tutto d’un tratto, ricompare.
A volte mi chiedo: sarà mica solo come una sega? Come il momento dopo la sega, che sei pronto a incidere il disco migliore del mondo, a scrivere un capolavoro di letteratura, a fare una ricerca rivoluzionaria… A volte mi chiedo: ma sarà mica che la mia vita si sta riducendo pian piano tutta al momento dopo la sega? Me lo chiedo, e mica mi dò una risposta. Che risposta posso dare? Semplicemente, ascolto una cosa in 4/4, che gira sui 98bpm, e mi sento nuovamente giovane forte e sicuro della meta da perseguire: è incredibile quanto fossi certo, da adolescente – quanta poca coscienza avessi, d’altro canto, della complessità di questo mio essere carne tra uomini, macchine e progetti quotidiani.
Mi sento, però, appunto, a tratti, ancora così giovane. Forse è solo un momento dopo una sega, forse no, forse la routine me lo sta appiattendo, in questa mia vita che in molti considerano pure allettante interessante affascinante e che io considero sempre più banalmente… stancante. Ante, Ante, Adelante Adelante. Andare, andare: Adelante! Eh! Facile da cantare, mio tesoro de Gregori.
Così mi trovo a vedere in altri passi che ho già fatto. E a vedere in altri ancora passi che non vorrei fare, vite che non vorrei vivere. E in me, a scorgere solo una indefinita confusione, a metà tra la sega – emozionalmente dirrompente, appunto – e la staticità in movimento di un percorso tracciato e, se non così tristemente ben chiaro come tanti, quantomeno piuttosto delineato. E sto lì, guardo questo trittico, e mi dico: ma cos’è questa cosa qui? Informe! Delirio!
Sai, mio caro blog, io dovrei fare una cosa sola: scappare due mesi in montagna, scrivere il romanzo della mia vita, far uscire queste anime, lasciarle andare. Solo questo dovrei fare, solo questo, uscire dagli schemi che mi sto autoimponendo
dalle email
dal cellulare nuovo
da te, dal senso di colpa per le persone che non riesco a vedere
dal lavoro
Scrivo:
Ah,
Saggezza.
Sei proprio una troia:
ti pago, e non fai che dirmi
che è ora
di andare.
Sarà una malattia del mio tempo: sono scoordinato, ma, ancora per un po’, continuerò a credere in un mio grande cambiamento.

Alexei

Non so cos’ho visto.
Forse, solo una macchina da té. E le porte scrostate di legno compensato. Al limite, la tua sigaretta. O le parole, provocate senza mai lasciare un silenzio un vuoto – a me troppo affini, facili e fallaci – da tua madre. O da quell’angelo di ragazza.
La cenere che veniva via come crosta di torta, la ruota d’una sedia su cui si è condensata la preoccupazione, l’ansia, di tuo fratello. Io non so cos’ho visto, Alexei del Can Can. Delle grandi terre, delle vie comuni, di un campetto di provincia torinese. Non so: ricordo solo notti insonni e l’odore del College: plastica e legno di moka.
Potrei scriverne, ora, di noi. Di noi in quell’attimo alla porta, sulla terrazza a pezzi dell’ospedale più grande e migliore, come l’angoscia. Potrei, ma non ne so, e fa un male tremendo, e me ne vergogno. Oh, Alexei: non ho un Dio, pensaci tu – che forse non puoi, ma almeno ti ho visto, ridotto così, e so che ci sei.
Ripeto, non so cos’ho visto, non lo so. E me ne vado, di nuovo.
Portandomi dentro lo spazio tra i tasti che premo
o poco
più.

cose che non mi appartengono

A un passo dal collasso, ernia ietale, troppi tortini di riso alla tavola familiare e vino bianco, a un passo dall’implosione torno a stendermi su queste lastre di bit made in china but disegnati in California, dove c’è sole e denaro e muscoli governatori. Gran culi, tra l’altro, o almeno così ci hanno sempre fatto credere, e viva Iddio – proprio lui! – credere è tutto.
Riaprendo per un momento alcuni strumenti di distruzione di massa quali skype o similar patacche, ho letto degli status, ovvero degli stimoli defecanti espressi attraverso le sopra lastre, da persone che conosco o meno, ma che in qualche modo sono a me connesse. Entusiaste, eh! Per ragioni che non mi appartengono.
La cena indiana che sta per essere preparata a casa propria.
La prossima partenza per il brasile.
Le mani giunte e un cavo per IPhone perso e ricercato, quindi.
“Ogni tanto mi risveglio e mi domando, ma in tutto questo – cosa c’entro io?” (N. Fabi).
Sono cose che non mi appartengono.
E non perchè, banalità, non sono da me in prima persona vissute. La conquista del palazzo d’hiver mi appartiene, che diamine, eccome. Sono cose che non mi appartengono, non sono nel mio universo di possibilità espressive, emozionali, punto. Ecco la questione: leggo e vedo universi paralleli, e neppur simili. Vere e proprie altre dimensioni coi loro gas e le loro stelle e tutte le possibili combinazioni chimiche, unite e non, collimano e collassano.
Sono lì a un passo a un occhio a un numero da me. Ma quanta distanza.
E quanta rabbia.
Inespressa, anche in queste parole, che assumono la stessa dimensione delle stesse contro le quali si riversano, argomentano e schiantano. Cioè, in breve, avrei bisogno di slacciarmi da questi universi di persone che si parlano addosso. Questo sito non lo legge nessuno e io sto benissimo proprio così.
Diamine.
Che contraddizione.
E’ precisamente sentire che c’è qualcosa che prude, che provoca un fastidio continuo e tenace, e sapere, essere consci, che quella cosa è la stessa cosa che produciamo ogni giorno – ma si disgiunge da noi. Intendiamoci: la merda del cane, o il suo bau, non sono il cane. Ecco: è il cane che odia la merda e la produce, io che odio questa persona che aspetta gente a cena e me lo fa sapere, e poi pubblico, defeco, dei miei bisogni.
Sono lacci.
A ventidue anni scrissi:
Nella carne ho nervi che fremono
muscoli tesi
fiumi di latte bollente
fili su fili al vento, fili di salice
che frustano l’aria,
nel sangue ho un giogo di lacci,
sono batterie e chitarre distorte,
traffico, code interminabili,
impiegate saccenti ignoranti,
donne che ti guardano con occhi di gatta
puttane.
Nel sangue rosso e grumoso vi sono
pietre aguzze- una spiaggia
di bianca sabbia,
nel mare un polipo assassino,
il computer impazzito,
gente che ti assilla dalla prima ora del giorno /
sento i muscoli fremere,
ho una gran voglia
di spaccare la faccia di gomma del mondo
e poi piangere, piangere,
annacquare il gelo
della mia spiaggia
esistenza.
Ne ho ventisei.
E così, “Ogni tanto mi risveglio e mi domando, ma in tutto questo – cosa c’entro io?” (N. Fabi).
Ho bisogno di una svolta. Lo dico solo questa volta.

dig yourself lazarus dig yourself

Non ne posso più dell’odore del caffé del mio vicino di scrivania nell’ufficio cappa, afa di PC, caldo di una stella lontana a contatto con la mia atmosfera, quel suo vapore di caffé cileno, odio tutti i Cileni che se lo mettano in culo, chicco per chicco, quel loro caffé Fair Trade Rain Forest Alliance del mio enorme Dio caffé, il mio vicino e il sorriso e la cappa fumante. Non ha una tazza, non se la può permettere. Beve caffé in cup di cartone su cui c’è scritto, stai attento che le tue labbra rosee e la tua lingua maionese potrebbero scottarsi al contatto con, Ho vinto molti premi e non ne ho apprezzato neanche uno se non quelli con le tartine gratis e le segretarie con lo scollo a V e i capelli biondi che mi dicevano amiamo quello che scrivi e io, si.
Non ne posso più dell’uomo che mi dice di chiudere la porta del mio ufficio. Non ne posso più di questi album indie rock tutti uguali e di questi cantautori che non hanno più niente da dirmi e continuano a spillarmi soldi su emusic, non ne posso più delle mie maglie sempre troppo lunghe o troppo strette o troppo troppo, non ne posso più del mio gonfiore di stomaco, lo incontrassi per strada, maledetto stomaco, sarei più duro di Eastwood più serio di una canna di pistola nera fumante più gonfio di un tacchino graziato da G. W. nel giorno del ringraziamento. Che caca sul tappeto presidenziale. Diarrea tachinorum. Maledetti Cileni.
Non ne posso più di questa luce di merda a tempo che ho sopra la testa. Che ogni cinque minuti si spegne. E un giorno stai bene e un giorno stai male, affacciato alla finestra, che un giorno ti senti come l’istante dopo una sega, e il giorno dopo ti senti come quando te ne sei fatte troppe di seghe, ma le donne, le donne, come possono capire… per loro è come quando ti dice per la prima volta ti amo e quando te lo dice troppo, odio questa luce, che ogni volta che scrivo devo muovere la mia mano per aria, come un folle, in ufficio, per ri-attivarla ri-accenderla, voglio una ri-mozione di questa sensazione. Un agente pagato apposta per sostare ore all’angolo del malumore.
Non ne posso più. Di questi libri troppo lunghi. Di questi tutori che non ti seguono al di fuori delle barre rosse dei documenti, ecco dove stava mr K, tra le barre rosse dei documenti neri. Ed è andato fuori, beato lui fuori di sè. Non ne posso più e sto per scoppiare, e potrei fare come fanno alcuni che spaccano in due il pc di questa mia vicina di scrivania che ha un bel sorriso ma è tremendamente insicura, e glielo spaccherei in testa, il pc, lo schermo da una parte all’altra, e sarebbe ancora capace di chiedermi why. Non ne posso più dei why. Dei va bene ma. Dei è perfetto ma. Dei suoi stivali, in vacanza col bagnoschiuma pino silvestre che è ormai l’unica cosa che si silvestre è rimasta. Non ne posso più di vederlo passare e di non potergli parlare se non sotto appuntamento. Silvestre che puzza di merda di mucca pestata da uno zoccolo di un cavallo che l’unica corsa che ha fatto in vita sua è stata dalla fregna alla paglia. Cavalla.
Non ne posso più della mia necessità di organizzare.
Non ne posso più di quelli che sanno cos’è meglio per me e non capiscono quanto quanto quanto, loro credono sia semplice. Non ne posso più di me stesso, e ci arrivo senza pathos, ma non di me in quanto me, cervello, ma in quanto me che agisce, il perpetuum in me, non ne posso più del mio cellulare, d’esser reperibile, irrequieto, con un mare di idiosincrasie che è destinato, maledetto riscaldamento globale, solo ad aumentare. E Al Gore si ficchi il suo documentario nel,
Una pala. Solo una pala.
Datemene una che la rompo sulla schiena dei miei lacci. Datemene una che mi ricongiungo con la mia voglia di vivere, di metter la testa nell’origine del mondo per rotarla con occhi sbarrati, occhi in cui entra il liquido del mondo a vagonate, a vagonate, datemi una pala, voglio scavare una fossa per tutto quello che è e che sembra sarà, prendere a uno a uno i peli del mondo e bruciarli con quella puzza di pollo e, ancora, scavare, ricoprire, vagonate e vagonata – questa cazzo di luce che continua a spegnersi è insopportabile!
E’ tornato l’uomo a dirmi della porta.
Ma io non sono irrequieto di per me.
Sono solo non ne posso più e mi vedo prendere a badilate in testa le mie sinapsi, mi vedo di schiena, piegato sul mio cranio aperto col badile sferrare, zack, zack, lupo cattivo! Mi vedo e mi chiedo qualcosa che non ricordo già più.
Una cosa gialla, una cosa marrone.
Una cosa che puzza. Di pollo. Di caffé. Una cosa appiccicosa, che cosa, che cosa.
Dove voglio andare a parare senza perdere la mia ragione? Ma quale ragione! Fanculo a questa cazzo di Rain Alliance Forest delle mie palle piene di peli! Cileni del cazzo, se li prendo gli faccio poi vedere cosa vuol dire lavorare, cosa vuol dire sentirsi carico e pieno di responsabilità, cosa vuol dire giocare a fondo, ogni giorno, sudate carte e luce di stella percepita solo per afa, cosa vuol dire piegarsi, scavare, cosa vuol dire farlo Avendone Perso Ragione.

anni veri di

Ho preso in mano le cartine, il tabacco. Il filtrino, bianco, spugnetta, è già in bocca. Queste cartine sono ingestibili, troppo fini. Si spezzano, non si chiudono. Col vento di questi giorni tutto intorno, è difficile chiudere le sigarette. Per poi portarle alla bocca. Litigare con l’accendino, fumarsele.
Finiscono, le sigarette. Se ne vanno senza lasciar nulla, nulla che che si possa vedere, passano di mano come una giornata a pescare, anni fa, o una in biblioteca, o dietro alla scrivania, al lavoro. Tra le dita come l’acqua del mattino, come il sapore di una pizza dal congelatore al forno, il congelatore che tenti di riaprire e non si apre. Sono abbastanza malinconico, in questi giorni. Chiudo la cartina, finalmente, e il filtrino e già stretto tra le labbra a reggere la lunga paglia, l’infinito tumore, la linea bianca tra me e l’altra metà della strada. Ho sangue blu, malinconico e rosso, che mi scorre nelle vene.
Sono stato a casa.
Sono stato in città con gente e fatto cose.
Ho preso taxi, navi, aerei, sono tornato da dove sono venuto e mi ci sono distanziato. Ho perso bagagli, o mail in ogni angolo del globo, amici virtuali su pagine virtuali in collegamenti, virtuali. Qualcuno mi ha scritto su una chat. Mi ha detto: stai morendo, cosa aspetti a cambiare. Inalo a fondo, è forte, il fumo entra nelle stanze a U del mio cervello. Se le passa tutte, indifferente. Come io passo i giorni qui, le sigarette qui, qui e là, anni veri di felicità.
Sono convinto, estremamente convinto, non scremato, integro, con i fili di grasso, quasi panna, in una scala da uno a dieci dieci, una ferrovia in metallo pesante. I miei amici accordano gli strumenti e io sono il disco finito, venduto, sold out. Sono il gatto che riproduce le sette vite sprecate in sette gattini, quarantanove nuove pose e possibilità. Sono troppo convito, sono preciso, sono… elettrificato e glorioso. Inalo a brucio. Con rabbia e miagolii indefiniti. So dove voglio arrivare, ci sono arrivato. Ci arriverò. Sono convinto: prendo quindi tutto il resto tra le dita e lo lascio andare, sabbia al mare, spiaggia di settembre, al mare finale. So cosa voglio e giro sigarette e giorni e mi siedo, in spiaggia, a guardarvi e a guardare questo posto. Anni veri di felicità – ma che cosa resterà.
Arriverò, lo so.
Come una corsa che ci si è imposti, il traguardo è alla nostra portata. Sarò felice, per il mio lavoro. Avrò gioie, per il mio futuro. Avrò un figlio, mi aggrada, ne ho voglia. Ma oggi lascio scorrere, e un po’ ho paura. Qualcuno mi ha scritto, in chat. Mi ha detto che cosa aspetto a cambiare. Lei sa chi sono, lei non dice mai a me cosa fare. Oggi l’ha fatto, mi sento così debole, per continuare a fumare così. Un passatempo verso la vita. Un’orizzonte raggiungibile, che prima di raggiungere si sta a guardare il mare passare, sciaborda con spruzzi si spuma bianca, al tramonto bruna, e rifletti mille colori gagliardi, faccette e libellule, pagluzze del sole… ma non lo si tocca. Sciaborda, spuma. Va.
Un po’, ho paura. Mi ha fatto pensare. Tre parole secche, virtuali.
Le sigarette si possono gustare?
Tu, che passi tra le mie mani, mi lasci del sudore? Ho dei colori intorno a me, o solo vento e cose che non so, che non vedo, che lascio cadere?
L’ho buttata nel cestino. Di quelli neri, un portaombrelli, forse. E’ caduta sul fondo ancora un po’ accessa, poi si è spenta lentamente. Io ero già in casa, a controllare la posta, a chiudere gli occhi, il mare continuava le sue moltitudini colorate, a lato e io, come se nulla fosse, avevo già iniziato a dormire.

windows lying down day

E’ il primo giorno, dopo tanti, che mi ritrovo a poter guardare fuori dalla finestra non per angoscia ma per piacere. Una collinetta con qualche ciuffo d’erba inasprito dal vento e un al di là con gli uccelli che passano a stormi, così felicemente neri, che non riesco a vedere. Il cielo è grigio, aria invernale. Ho in mano il passaporto, che non ricordo com’è che l’ho preso, e continuo a passarmi la sua copertina amaranto, ruvida, plastica burocratica, tra le dita. Lo apro e lo chiudo, senza guardarlo, per ricordarmi le vecchie e immaginarmi le nuove partenze. E nello scorrere delle fotografie del mio faccialibro mentale, quando passano una accanto all’altra e una sopra l’altra, dagli anni scorsi ai giorni messi dentro a qualche minuscolo cassetto appannato, passo anche di qua. Da questa stanza e dal mio letto sdraiato per terra, disfatto e rifatto a due passi dal bagno, dall’armadio, dal buco. A due passi da tutto quello che ho che si è compresso qui dentro. Esploso da una valigia.
Questa non è una città, il posto in cui sono. E non è neppure un vecchio villaggio di mare coi suoi uomini da piccoli lavori in attesa di farsi la barba e la morte. E’ solo un paese immaginario. Un posto chiuso in una bolla lontana dal mondo, su uno scaffale di un qualunque centro commerciale, messa in terza o quarta fila che nessuno la può vedere ma tutti sanno che c’è, che è lì, ed è pronta anche se un po’ irraggiungibile. In cui fluiscono i ragazzini della apple e del maglione in flanella, le ragazzine bionde e tutte incredibilmente con gli stessi occhi e le stesse labbra da hentai, con gli stivaletti col pelo bianco e i gonnellini. Calze spesse viola o marroni. Gente con una semplicità di vita quasi sconcertante, non loro, i ragazzini, ricchi e poveri adolescenti britannici, ma gli uomini e le donne conviti e convinte di fare un servizio al mondo con le loro ricerche tra la A e la B, tra il pelo e l’uovo, beating around the bush. Un’aia sconfinatissima. Dove si gira e si gira e ci si compiace, abbastanza lontani dal mondo da non dare fastidio, e da continuare a risplendere come carta patinata. Porca puttana. Ma di quelle proprio luride, di quelle da bordello di Ankara. Che ci entri passando il check in della polizia e poi passi accanto a queste signore che ti aspettano sulla porta, in una piccola cittadella dai muri scrostati e dall’evidente sifilide, puttana con le vene varicose e il mondo sfiancato dentro di sè. Forse una di loro capirebbe. L’inutilità latente di una massa di parole scollegate da tutto e da tutti, un fuoco fatuo di cui si parla e che nessuno ha mai visto. Poche eccezioni, pochissime. Solo un gran rumore e un’eccitazione di fondo che finiranno un giorno sommesse come un peto lasciato andare, tra il culo e la sedia imbottita, caldo, nel silenzio generale.
Passo un occhio veloce sul nuovo lavoro da fare, che è lì accumulato sulla scrivania. Deglutisco un sorso di the dalla tazza coi fiori e incrocio le gambe. Guardo ancora fuori da questa finestra che non riesco ad aprire. Al di là del vetro spesso, forse la stessa emozione di vedere qualcuno uscire di casa al tramonto coi contrasti fortissimi del grigio e del nero, coi pensieri a districarsi tra un lampione e l’altro, come lunghi fili prima di prendere il volo. Forse, e io continuo a sperarci. A lavorarci. Pronto presto a partire, con una voglia di andare proprio al centro al mezzo all’interno del bush, nella sua profondità così odorosa e felicemente nera. Per lasciare ad altri la gioia di girarci ancora, e ancora, intorno.

divano

mia madre sta sbattendo le pentole coi coperchi e io immagino quando, da bambino, mi divertivo a prendere le forchette e a iniziare a stridere con le tre (quattro?) punte nella parte concava degli stessi, l’interno, tra le righette sottili e lucenti dell’acciaio, quando per intenderci mia madre si alzava dalla sedia strillando FINISCILA! mentre lei ora è lì che più o meno fa la stessa cosa e io rimango immobile, senza dir nulla, sul Divano. Il tempo passa, penso, le relazioni di potere rimangono immobili come quei muriccioli che ogni tanto vedi in giro in campagna, che vedevi anche da bimbo, e che sembrano rimanere sempre lì. Sempre al loro posto. Scrostati.
Forse. Forse i muriccioli non sono sempre uguali e così fanno i rapporti di forza, quelli che vedi in giro sparsi per le campagne racchiuse tra il ferro da stiro e la sala. Il tappeto con improbabili tacchini e il telefono, bianco.
mio padre sta smontando tutto. ha preso la casa per un lego – e qual’è poi, in fondo, la differenza? ora tiriamo su delle pareti nuove intorno a noi e le costelliamo di preoccupazioni. le friggiamo con la birra, però, che così rimangono croccanti. sta spesso sul tetto, mio padre, e a me viene da pensare quando queste stanze erano ancora da costruire e io ero proprio pisichello e giravo con un gatto in mano, un micetto, chiedendo come si chiama come si chiama per il prato, quel prato che ora è di nuovo un cantiere. Mio padre invecchia e dimagrisce e la cosa più triste è che io me ne rendo conto. A volte lo vedo, non ora, che sono sul Divano. E lo vedo più scarno. E mi preoccupo.
Forse. Forse faccio poi solo bene, a preoccuparmi solo per me. Perchè è di quello che mi angoscio, la mia lenta sfuggita, il dipanarsi del legame, e chissà cos’altro. Chissà, forse è solo una paranoia, come quelle che ci sono la sera, quando hai finito di mangiare e la tavola è ancora apparecchiata, che non chiede più niente. Paranoie che rimangono nelle briciole di pane e nei riflessi colorati della tv nei bicchieri.
Gli occhi sono generalmente stanchi.
mia sorella forse dorme. sul Divano.
il mio cane è morto qualche anno fa. qui dietro.
proprio qui, sotto il balcone.
Forse, avrà pensato, è fatta. Ed è spirato. Ma mettere un pensiero in testa a un cane è proprio roba da stronzi.
E così il mio computer continua a scaldarmi le gambe, a Luglio, mentre ho la testa incassata e il Divano mi spinge ad andare sempre più giù. Se questi sono i giorni di transito migliori della mia vita, beh, signori miei, venite a cena questa sera che vi farò trovare il mio stomaco tritato e speziato, un purré come non mai, tanto per essere chiari. La tavola è pronta. La porta, smontata. Vi prego, entrate. Posa le pentole, ma. Scendi da là, padre. Sorella mia alzati e cammina.
Entrate ora.
Ho il vento in poppa e un’ombra nera, grandissima, che mi sovrasta.
Tutto è scuro.
Una testa grande come il mondo
e una solitudine
calda, che sa di vapore. Appena stirata.