China: One day in Shanghai

Tornando dalla bella Italie, mi sono fermato un giorno a Shanghai. Un’afa! E che smog! C’è davvero da fare i complimenti a questi cinesi di mare per quanto riescano a non-sudare, o a sudare, certo, ma senza dare troppo nell’occhio. Io, fontana occidentale, mi sono perso in alcuni budelli pieni di motorette e pesce morto, scale ripide e cavi elettrici. Gatti stesi a brasolar sull’asfalto, occhi di cinese che mi passavano attraverso. Shanghai enorme, poco definibile, o forse, in due parole: in costruzione (e in relativa demolizione). Il placido canale scorre lento in mezzo alla città e da un lato c’è il budello, dall’altro grattacieli enormi, alti e cattivi, piantati lì a guardarti per non farti capire – che è poi quello il fine ultimo di un regime. Grandi rotatorie con finestre, e finestre, e finestre, e finestre, e poi ancora: finestre piccole minuscole messe lì come puntini che nessuno mai aprirà, affacciate a motorways trafficate, congestionate, come gli occhi a veder tutto quel cemento (e a sentir tutto quel caldo…). O forse no, forse dietro alle finestrelle c’è vita, di quella di cose messe al loro posto con un ordine tutto cinese, e i bei caratteri, e la televisione di marca giapponese prodotta nello Guangxi (che è come dire nel mondo). Troppo poco tempo, troppe linee, poche foto. E’ un inizio, vale la pena di tornare. E tornare ancora, piano, come una mano che si apre e non sa quel che incontra.

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US_New York/LA

Diciamo pure che ci sono cresciuto con questa divisione, East e West coast. L’HH, certo. Biggie e 2Pac, certo. (Anche se, devo dire, a me hanno sempre ispirato di piu’ i rapper di Atlanta e Chicago, ma questa e’ un’altra storia, un altro viaggio). Arrivare a New York dall’Australia e’ fare ventidue ore di viaggio – e’ rimanere piacevolmente sorpresi, che si e’ un po’ a casa. NY europea. Per uno che manca un po’ dall’Europa e vive in mezzo ai canguri si’, c’e’ quell’aria. Su verso West Upper Side, accanto a Central Park, siamo in una zona residenziale di Parigi. Harlem e’ un budello barcellonese, Greenwich e Soho un revanchist-chic-fighetto che c’e’ anche a Torino. A NY tutto insieme pero’, e ancora di piu’ – Brooklyn non ha paragoni, o non ne vengono a mente. Il Bronx si estende su un’area che e’ grande come la Svizzera, credo, sento, pare. E sembra quello che e’, edilizia residenziale, dove se vai oltre ai mattoni rossi trovi i neri seduti al parco a prendere il sole, quelli che vanno a lavorare. Il predicatore. La vecchia culona. Che sei nel Bronx te ne accorgi anche dai bancomat, che improvvisamente ti restituiscono banconote di piccolo taglio – il cinquanta qui si usa poco, a che serve? La pizza al taglio di Harlem. Wall Street, Coney Island la HighLine. Tutti ambienti di newyork, che un po’ conosci, inevitabilmente. Perche’ a girare per questa citta’ ti sembra di sentire alle spalle Spike Lee che ti dice-motore, azione; di vedere De Niro al volante di un taxi, di incontrare una Sally qualunque persa in qualche semi-loft a lower Manhattan. L’ho sentita famigliare, NY. Sara’ per i colori, sara’ per Starbucks, sara’ perche’ in fondo il caotico regime del sali scendi dalla metropolitana grigia fa al caso mio, sara’ che i numeri bianchi su sfondo nero rassicurano, mi fanno stare bene. E poi certo, c’e’ Ground Zero. Con accanto un antico cimitero con le tombe e le muffe che guardano in faccia alla Freedom Tower. E i camion dei pompieri. Le luci, i riflessi – ecco, si’, i riflessi.

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Ma di America, a NY, poca. Quell’America un po’ Eastwoodiana un po’ Apple Store, poca. L’altra costa offre spunti in questo senso. E poi ti chiedi perche’ i rapper della West coast facevano quel tipo di HH: ma e’ il sole! Matematico come l’equazione che regge i 4/4. Immensa Los Angeles. L’aereo ci passa su, e continua, continua, continua, sotto luci a non finire e dispersione vastissima, questa si’ una regione, una megalopoli senza un centro, senza Il Centro, senza una metro degna di questo nome, solo autobus, grandi anche loro, e strade – larghe, piatte, aperte. Ma questo dall’aereo non lo sai. Speri ancora in una bussola. Ma Los Angeles ti spiazza, se arrivi da canoni citta’ romanica, o da feeling post-moderno NY. Semplicemente sei li’, in mezzo a una strada e intorno a te ci sono vialoni che corrono verso l’orizzonte e case basse, e pompe di benzina, e sole, e cartelloni pubblicitari sopra, dentro, sotto. Le pompe di benzina, comunque. Sono le pompe di benzina che fanno LA. Chandler, maledetto, tu lo sapevi. Ma soprattutto tu, Bukowski, me lo avevi detto! Mi avevi gia’ detto tutto. A LA ho compreso la tua BMW nera, ho compreso tanto di quello che hai scritto – il senso di molecolare di trovarsi li’ dentro, la birra e i magazzini, il non-sense di Hollywood e la dispersione della Downtown. Bukowski, cazzo!! La barba bianca della prostituta messicana. Los Angeles cambia ancor piu’ nettamente di NY. Puoi stare ore, l’ho fatto, ore a camminare su un singolo boulevard (Lincoln, es.). Puoi startene chiudo in Motel di strada, andare in the fashion district coi messicani, stare piantato in mezzo a Downtown e proprio non sapere dove andare, come orientare. O spostarti a Venice. Ecco, adesso ragioniamo, hippies e artisti e cannaioli, tutti insieme. La spiaggia a due metri. Le reti da pallavolo. I canestri. Le capanne-baywatch. Cammini per un po’ e tutta questa gente raggruppata in un solo posto non ti sembra neanche LA, ma e’ LA, LA non e’ solo un’infinita provinciale ma c’e’. E c’e’ certamente tanto altro, il tempo di non vederlo.

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Il tempo di tornare qui, Oceania, una settimana dopo. Ancora confuso. Sempre di più. Fare una fatica grande a scrivere mezzo paragrafo. Transizioni, dicono. Vibrazioni, sentono. Paure. Uscire di strada? Ma i vialoni di LA sono grandi abbastanza, mi possono contenere, me li faccio tutti e casco in mezzo all’oceano. Pronto a tornarci. Viriamo – ancora.

Faremo di meglio. Pare.

 

Canberra’s time

A Canberra le strade sono larghe, ci puoi girare solo in macchina a Canberra. Pianificata da zero per placare la disputa tra Melbourne e Sydney per la capitale, Canberra è un posto di grandi edifici, laghi artificiali, ministeri e strade. Mai viverci, vale la pena vedere. Cosa simbolica molto interessante: il parlamento, disegnato tra l’altro da un italico, è ficcato dentro a una collina su cui si può camminare. La democrazia sotto i piedi. Mi piace, sovieticamente parlando.

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Australia East Coast: Brisbane, Townsville, Mt Isa

Il viaggio natalizio lungo la spina orientale di questa grande Australia mi ha portato tra città impazzite per lo shopping del Boxing Day, isole magnetiche, ma soprattutto tra la polvere rossa del rame estratto a Mt Isa. L’incontro con gli aborigeni conosciuti nei parchi a bere, o lungo i fiumi a pescare, è stato il compendio migliore. Tanto sole, in questo viaggio. Tanta periferia, outback, con le sue strade larghe, le macchine grosse, e il giornalaio, il McDonalds, il negozietto di “lingerie” femminile. Alle spalle, i camini, il rame rosso, la miniera. Ttuto intorno: vuoto che vola, per chilometri, si estende. Australia interna, atto 1.

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Noel: Viaggiare.

Pranzo di Natale. Avocado, pomodori, cheddar cheese, finale di Malcom X, Spike Lee. Pensiero a Leo. Pensiero a casa.
Prossimo spunto: Viaggiare.

Chiudo questa macchina e vado a prendere un treno. Poi ne prenderò un altro. E un altro ancora. 3,330 km in cinque giorni, lungo la spina orientale di questa Australia, grande, lei.
Brisbane, Townsville e la meta finale, Mt Isa. Grande miniera. Polvere? Sole sicuro.

Partiamo. “E’ stato un tempo il mondo giovane e forte, odorante di sangue, fertile. Rigoglioso di lotte, moltitudini, splendeva, pretendeva molto”.

On y va? Allons-y.

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Auckland, Kiwi’s Land

Sempre più a Sud, sempre più a Est, che poi è tutto relativo.
Auckland, città che di per sè non è poi un granché, per i suoi palazzi e le sue strade che salgono e scendono dalla collina. Quando però ci si avvicina all’Harbour, al mare, e si prende un traghetto le cose cambiano – ci si rende conto di quanto l’acqua, la terra, le insenature, e in generale le onde (siano esse blu, verdi o bianche impastate d’azzurro) siano la cosa, la Cosa, di questa Nuova Zelanda. Terra di Kiwi e di Hobbit, terra di Maori (25% dell’attuale popolazione, mica male). E i cartelli sono in Inglese e in Maori. E la gente ha la barca. E ti ci viene quasi voglia di tornare, per prenderne una e vedere un po’ di che pasta è fatta, questa Oceania. Prossimamente.

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Abu Dhabi 2011

Abu Dhabi. Il petrolio fatto cattedrale, il deserto.
Centri commerciali giganteschi, moschee con lampadari da 8 milioni di dollari, hotel che di miliardi di dollari ne sono costati ben 3. Tre.
Le strade sono la cosa che sorprende di più, ad Abu Dhabi. Tre, quattro corsie in una direzione, altrettante nell’altra, deserto ai lati, diritte verso palazzi-stuzzichi-all’orizzonte illuminato da una palla rosso pompelmo che è lo stesso sole tuo. Quello del campetto da basket a Verrone.
Sette emirati, uno più ricco dell’altro, l’acqua irregimentata dentro a piccoli tubi di plastica che scorrono sotto il verde delle aiuole e delle passeggiate dove non passeggia nessuno perchè non si può, fa troppo caldo, caldissimo afossisimo: panchine ordinate che segnano le ore scandite dall’ombra dei lampioni. Accesi per sport.
Sfoggio petrolifero.
Abu Dhabi. E gli operai a cinque dollari l’ora accampati chissà dove. Le gru, l’aria condizionata che condiziona ogni spostamento. 5 stelle superlusso sulla testa di questa notte giocata sulle note della penisola arabica, cantata in qualche privé di un Redisson Blu Hotel.
Abu Dhabi. Vietato l’ingresso ai cittadini istraliani e l’accesso a UPorn.
Voliamo via domani scrollandoci la sabbia di dosso, ridendo in faccia al parco giochi marchiato Ferrari, sorvolando petrol-dotti che segnano il ritmo che ha il cuore nel petto.

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