My piece on Il Manifesto on the UK elections (Il panino di Boris, i piedi di Jeremy e la pancia degli inglesi)

Published on the Italian communist newspaper Il Manifesto, on 16/12/19. The original piece can be found here.

 

Boris mangia un panino. Tiene un pesce in mano. Si fa ritrarre come se avesse appena finito tre pinte, e deve correre alla toilette. Boris mangia un panino…

L’altro, il socialista, sembra uno che cerca in tutti i modi di uscire da un pigiama troppo stretto. Ci prova, arranca. Non riesce: sta lì a guardarsi i piedi per cinque anni e non si muove. E certo, i piedi sono manifestamente belli, ma son sempre solo i suoi piedi. Uno pare un goffo pagliaccio di cui fidarsi poco.

L’altro un tizio che parla di cose che nessuno comprende in un linguaggio che affascina solo gli intellettuali upper class come me. Giustamente, Tim (il mio vicino di casa); Nigel (il mio plumber (idraulico ndr); ma anche Jenny (la mia amica che lavora alla Lloyds) e sotto sotto pure Vivian (una collega accademica che non mi saluta da tre mesi) hanno paura dell’ignoto. E l’ignoto: non è il ciccione che mangia il panino.

Sembra banalizzante, ma il voto di ieri ha molto a che fare con questi sentimenti di pancia. E noi Italiani questo lo sappiamo bene (Silvio anyone?).

Sappiamo anche che quei sentimenti di pancia da qualche parte arrivano. Saranno forse legati a quello che uno ha mangiato? Una delle letture popolari del voto legato alla Brexit si è concentrata sulle ragioni per cui intere regioni dello UK abbiano votato in massa per il YES, confermandolo ieri col voto ai Conservatori.

E giustamente si è fatto notare come i movimenti di pancia derivino da piatti indigesti come decadi di politica economica che hanno deprivato – letteralmente – intere parti del paese di una qualunque tipo di upward mobility; una segmentazione classista della società inscritta nei suoi più basici funzionamenti (come la scuola e l’università); la totale privatizzazione di strutture chiave, che ha portato al loro quotidiano e largamente accettato mal-funzionamento (mio padre, ex-operio Fiat, in visita a Sheffield un annetto fa: Ma cosa ci fanno coi treni a gasolio qui?!); e simili altre pietanze.

Ma il rimestio intestinale dei britannici ha radici più profonde, di cui si parla poco. Intorno al 1913, questa piccola isoletta era a capo di uno degli imperi più grandi di tutta la storia dell’umanità. La storia lo conferma: a suon di bastonate, schiavismo legalizzato di stampo marchiatamente razziale, tortura, stupri, totale dispossessamento di risorse economiche ed earl gray tea, i reali inglesi controllavano un territorio pari a un quarto di tutto il pianeta.

Poi le cose sono andate declinando. Perdi un pezzo qui, perdi un pezzo lì, la disgregazione del dominio coloniale si è protratta per quasi tutto il ‘900, con strascichi che hanno ripercussioni chiare ancora oggi (si pensi a Hong Kong). In altre parole, dopo un secolo e mezzo buono di totale euforia imperialista – che aveva le sue radici culturali anche nell’enorme senso di sicurezza garantito dai successi (sempre violenti) della rivoluzione industriale – John & Jane Bloggs si sono trovati rinchiusi nel giardino di casa. E il giardino è stretto per un ego tanto grande.

Da quell’angolo John & Jane non sono stati a guardare. Da un lato si sono affannati nella capitalizzazione del loro dominio culturale (attraverso la marchetizzazione della lingua e dell’educazione terziaria, soprattutto verso la Cina) e dell’altro hanno scavato una buca dove tutti da ognidove possono nascondere e riciclare i loro profitti sporchi (la buca è la quinta città Italiana, London).

Ma questi sono business per pochi. I più sono rimasti lì, nella parte del giardinetto dove piove sempre, le galline fanno la cacca e l’unica tettoia disponibile cade a pezzi. Mentre fuori tutto cambia e corre – inclusa l’enorme espansione culturale ed economica di molte ex colonie, in primis l’India – l’isola rimane la stessa, piccola, decadente. Fondamentalmente, triste. La gente guarda al buco (Londra), ma il resto rimane oscuro: che cos’è esattamente l’Inghilterra, se non un’ernome distesa di sandwich precotti, moquette e belly beers?

Confrontati con tale decadenza, il senso di pancia degli inglesi è stato quello di reagire, di provare a dirsi che no, in fondo non è proprio così.

Nelle ultime tre decadi il discorso politico e culturale di questo paese è stato interamente centrato intorno alla riaffermazione del proprio senso di superiorità e unicità. A partire dal discorso cool di Blair fino ad arrivare al panico intestinale mal gestito del disgraziato Cameroon, e della sua Brexit, il paese è pervaso da un senso di inadeguatezza colmato con l’illusione di poter ancora, ancora una volta!, contare qualcosa.

E di poterlo fare con marcata arroganza, nella sicurezza anonima di una cabina elettorale. I più – di tutte le estrazioni e classi sociali – si sono eccitati al pensiero della Brexitall’idea di una ritrovata autonomia decisionale che li porterà a sentirsi autonomamente fieri nel grande Regno Unito.

Il fatto che i maggiori successi cinematografici degli ultimi cinque anni, in the UK, siano tutti legati a mistificare la recente storia del paese è un segno chiaro di dove sia la confort zone di John & Jane (la serie The Crown, i film DunkirkThe Darkest HourThe Guernsey Literary and Potato Peel Pie Society – senza contare quella porcata-capolavoro, neocolonialista e razzista, di Victoria and Abdul).

L’uomo col panino, nella sua completa imbecillità, è un grande politico del nostro tempo. Perché rappresenta alla perfezione il sentimento di un paese che ha mangiato troppo, per troppo tempo, e ora è tutto intasato di sé che può solo scorreggiare uno così.

La direzione presa dal peto è disarmante, perché porterà al collasso certo di intere infrastrutture pubbliche (inclusa l’NHS, ma non solo) e porterà quindi i moltissimi John & Jane di questo paese a soffrire. Non c’è molta speranza da questa parte della manica. Mentre l’isola affonda e un’intero ciclo imperiale volge al termine, spero che da Sud altri possano apprendere la lezione: chiudersi nel proprio giardino, attanagliati dalla paura, è un suicidio collettivo.