Psicofarmaci nelle carceri

Leggo questo breve articolo di ‘E’, sull’utilizzo degli psicofarmaci nelle carceri italiane. Si parla di qualcosa come 35.000 detenuti che utilizzano questi farmaci, per stare buoni, sedati, tranquilli. È il controllo totale dell’individuo politico, ovvero del suo essere cittadino, attraverso l’annichilamento del corpo – come spiegava Foucault. C’è qualcosa di sinistro, in tutto questo. Il carcere è un’aberrazione totale, di per s’è. Quando poi va oltre le mura ed entra dentro così, quando le mura le costruisce tra le ossa e i neuroni, non merita più rispetto. Il carcere non merita rispetto. Va ridicolizzato, nella sua assurdità.

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Circondariale

Ernesto esce di casa, le spalle tappate da una sciarpa, una giacca, una mantella che è lunga un colore marrone. Esce di casa in macchina, Ernesto, accende la radio. Alla radio passano un pezzo di Prokofiev, lui sa che è Prokofiev perché da ragazzino amava il gelo la Russia e Pasternak. Sono collegamenti che si fanno su un divano quando scende la sera, un libro con la copertina rigida rossa, allora. La macchina è fredda, la brina sul vetro, l’alito fa le ostie a ogni sospiro. E’ una macchina fatta al suo paese, il paese di Ernesto. Il cambio che va in folle tra la seconda e la terza che lascia girare il motore libero come una falena. Quel cambio l’avrà montato su Carmine, Angelo, Carmela. Mentre pensavano chissà-a-cosa. Alle braciole delle domenica, alla gola, di Angelica, a quel passaggio irrisolto della: Settimana Enigmistica. Non è colpa loro, non può esserlo – è l’impianto, la mole, il tempo. La fresatura del pezzo. L’imbonitura dell’acciaio straniero, cinese. Mette in moto, non parte. Prokofiev ondeggia, nel senso delle braccia, le spalle, per dare fiato agli ottoni e aria alle viole. Una caduta, un silenzio, si accende il motore.
Il fumo bianco traccia un gioco di gas che partono insieme e poi si disperdono, come code di stelle-di-natale, arrivano fino al capannone, alla rimessa, e alcune gocce arrivano su fino alla ventola del bagno ci entrano dentro e vanno a guardare la moglie, un gesto ripetuto a mettere un reggiseno bianco a cui non crede più. Retromarcia, Ernesto. Pomello rigido su base instabile, volante che scotta di ghiaccio e vetro che al calore, il vetro, si appanna ancora di più. Barba, sopracciglio ricco, piede folto e addome un poco scucito, figura tutto insieme ben disposta ed eretta. Ancora per poco, Ernesto, un sospiro. La prima, ingranare lungo una breve salita di ghiaia compatta e lasciarsi alle spalle la casa monofamigliare mono piatto mono stereofonia, antenna satellitare.
Ernesto si ferma un momento all’incrocio tra la via di casa e la strada principale, l’ingresso che lo porta in circolazione, una potenziale biforcazione verso l’infitto, ogni giorno ogni momento ogni istante, lì a portata di naso. Non arriva nessuno. Il vetro è più chiaro, si vedono i campi con gli alberi spogli e il marrone, il sole che sorge e sa già di giorno passato. Sa di ieri, questo è ieri. Lo dice anche Prokofiev nel suo ripetere il motivo, lui lo sa, ne è sicuro, e lo trasmette col vigore di una banda di perversi vestiti di nero e di frac. L’incrocio è  passato. Come l’infinito, e il naso. Svoltare a sinistra, trecento metri, a destra. Le case non si guardano e non c’è altro, solo uno sguardo rapido a un appartamento dove viveva, un tempo, una ragazza a cui aveva fatto il filo, Ernesto. In modalità principiante, un orso di pezza dei fiori. Auguri. Lei che ride, dietro arriva un’altra macchina e un ragazzo con un maglia a maniche corte e dei jeans. Fa la rotonda, ora, una lingua di cemento che costeggia un campo da calcio una chiesa minuscola, un bosco e poi la Provinciale. Un chilometro scarso, un cavalcavia, i segni di un campo con stecchi piantati qualche mese prima che ora sono rigidi come indici rivolti verso la dorsale del cielo. Ma questo non lo pensa, Ernesto, lui guida e sta solo tra gli archi e l’ingresso del tamburo, chissà quante volte Prokofiev avrà guidato per andare al lavoro. Zero. Sulla Provinciale, meno uno.
Ernesto percorre gli ultimi metri lungo le inferriate rossicce piano, guarda il monolite antracite piantato nel mezzo del nulla con la coda dell’occhio, e vede che il marciapiede è d’asfalto, vede che le insegne sono un poco arrugginite, sa che le linee che delimitano i parcheggi se ne stanno per andare via, passite. Ma questo non è quello che fa un uomo, questo fa il destino. Parcheggia la sua auto a sinistra, smonta, sbatte chiude. Varca il cancello pedonale e fa un cenno di saluto al sorvegliante che ricambia. Alza lo sguardo in alto, il gelo ha coperto anche le stelle, con il cielo, le inferriate della quarta sezione hanno la brina e la sua divisa, ora, sembra fatta di carta, pronta per prendere fuoco, come la mano al volante, le piante che puntano l’indice, Prokofiev interrotto al soffocare brusco del motore. La libera circolazione. Ernesto entra nella Casa Circondariale, si sistema la cintura, i ragazzi sono già allineati per scendere alla mensa per fare colazione.

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