SAXX

(inspirata da J.C.)

Baka bakai

baka bakai

È un suono sinuoso

che si ripete

Baka bakai

Lo diffondono le casse dello stereo

Le grandi casse nere

Posizionate sopra l’armadio nell’umida stanza.

Agosto, maledetto cemento,

rilasci il tuo caldo mellifluo bakai,

quando io sprofondo nella poltrona

e nella mente

con la schiena curva e gli occhi

contro l’armadio

dietro le ante

dove c’è appesa quella

giacca marron, che ancor puzza

di cicca,

di quel mercato bagnato

a diecimila leghe da qui, dove,

con un sorriso un po’ incerto,

nude le spalle, la comprai.

Lo sguardo della venditrice tradiva

La sua lingua straniera.

Baka bakai,

baka bakai,

e il vinile grasso continua a girare, con le mie gambe

pendule e le braccia a far aria

con un vecchio giornale.


yess!!

e prendimi questa volta di spalle
voglio sentire
quella tua mano di pasta infornata
passare sulla vita, girarla,
come un filo di trentasei lune od ottanta,
io che lentamente mi sposto da un piede
all’altro, sul parquet marron,
casa solitaria,
NEL MEZZO DI UNA PIANURA DISTESA
CON LE MANI DIETRO LA SCHIENA
E LA TESTA ALL’INSU’
con le scarpe che fanno
squash squash
Medici con occhi gonfi sporgenti
mosche poliedriche
assassini indicibili, bava lunga e guanti rossi
dicono che non durerà
tra di noi, sospesi nell’aria,
nella casa solitaria,
NEL MEZZO di
CON GLI OCCHI e
un discorso qualunque
.
e prendimi però questa volta
prendimi ora
solo pochi passi, vieni verso di me, nella stanza silente
non stare
così incredibilmente immobile su queste
ASSI DISTESE
con il sudore a cadere distinto
e la testa
all’ingiù
squash, così di botto a gocciolone,
da un collo all’altro,
io davanti tu dietro, con la precisa sensazione
del filo del silenzio
spesso, teso
tra gli occhi chiusi
e noi.

Choose me

E’ così difficile scegliere
con le mani legate a un laccio
di carta.
Gli hai visti i piccioni, entrare nell’appartamento?
Hanno guardato coi loro occhi
il tuo futuro e quello
della ringhiera, scrostata, con la ruggine
e il verde che cade giù.
Oh, Santa dei naviganti,
non voglio pregarti, ti prego,
vorrei isolarmi con te
e guardare, con te, lontano.
Sono così fortunato che vorrei avere
il coraggio di scacciarli e riallacciarmi al reale
per un giorno
un giorno soltanto, via la carta
che si rompa veloce, con uno strappo
rapido rapido
e poi via.

movimento gitano

Oh! Ho questa cosa che mi balla tra la collottola e la vena sinusoidale del collo.
Qui, sul divano, davanti alla televisione scatola box.
E’ il moviemento gitano.
Me li ricordo.
Con il cielo bruma che si scuote pronto a venire giù, si preparano per iniziare la loro festa. Se ne stanno là, in una spiazzola ai margini di Torino, col cemento rotto, i cessi strabordanti merda, che cola in rivoli marron ghiacciati, e le loro sessanta roulotte. Loro stan lì, si guardano, si muovono, poi decidono così d’amblé dal nulla che è arrivato il momento.
Qualcuno, senza che tu te ne accorga, ha piazzato su uno stereo. In un angolo, attaccato a un generatore. E’ uno stereo di dimensioni spropositate, manco il Vasco al Delle Alpi, quello sì che era un concerto – tristesse. Fanno partire la musica e cominciano a ballare. Sguaiatamente, bocche aperte e braccia su e giù. Si incrociano. Uomini scuri e donne scure. Che zingaro, appunto, vuol dire “dalla pelle nera”. Hanno denti d’oro. Hanno vestiti che non lavano mai e gonne colorate, se camminanti, molto ampie e divertenti. Hanno, spesso, zoccoli e scarpe nere con le bolle. Sfondate sotto e bolle sopra e hanno, infine, barbe e baffi, d’ambo i generi, e sanno sempre d’odore di fritto pungente.
Pollo fritto patata fritta pasta fritta olio che cola in rivoli alla periferia di Torino, come merda marron.
Me li ricordo, e ricordo che quando ballano possono anche eccedere. E se bevono, che vuoi che sia, poi si scazzottano anche un po’. Ma non al Banus, no. Nel Lungo Stura Lazio.
Me li ricordo, questi zingaracci puzzoni. Bastardi! Qualcuno nei corsi formazione e lavoro, qualcuno a rubare, i bambini che alle cinque tornano dalle scuole della barriera di milano e i più piccoli che alle sette tornano, con le madri, dall’ombra della Mole.
Ah, ci fosse stato l’Antonelli. Regge estive, altro che campi.
La musica, si, il manele.
E l’ombra del Novotel alle spalle, che se fai foto solo in bianco e nero puoi farle.
E il cemento, rotto, quello posizionato dal Comune in quel campo un po’ legale e un po’ no, un po’ visto e un po’ meno. A due passi dalle enormi e gloriose centraline elettriche dell’Enel che mi ricordavano ronzanti Breznev e l’Unione Sovietica, Dio – quanto mi manchi, Unione Sovietica.
Centaline, ronzano, nel manele a mezz’aria, musica.
Zoccoli e ciociaria.
Cazzotti, baffi, pelle scura e braccia a incrocio. Un paio di mani che applaude.
E’ il movimiento gitano.
Me lo ricordo, là, in periferia a Torino, a due passi dall’imbocco della Torino Milano.
Devo, posso solo ricordarlo.
Perchè non c’è più, non c’è più nulla.
Un cartello immaginario a mezz’asta dice Sgomberato.
Io sgombero tu sgomberi egli sgambera.
E il manele che ronzava, ha lasciato il posto all’elettricità. Che dalle centraline sale, sale, riempe l’aria ad onde concentriche.
Onde diffuse.
Onde potenti sulla città.
Van su su nel cielo, toccano il punto più alto, e poi cascano giù.
Estremo fragore.
Su tutti noi. Che siamo ancora qui.
Ricordo quei balli, spengo il televisore, e non ci penso più.