Expectations (l’albero di mele)

(colonna sonora: http://www.youtube.com/watch?v=2IRSeisLf1s)

L’hanno potato. C’è solo un ridicolo insieme di rami e cielo ora, là fuori. Stanno lì, insieme, un po’ spauriti un po’ spaesati, si tengono per mano quasi a coprire la verginità del legno rimpiangendo le foglie che furono. Di mele, neanche l’ombra. L’uomo con la camicia a quadri se le è portate via. Magari se le è mangiate sul suo camion scassato, o le ha messe in un pentolino con due dita d’acqua e si è fatto melecotte. Avrebbe fatto bene ad aggiungerci del Porto, ma qui non si trova, il Porto. Ha tagliato anche le rose, l’uomo con la camicia a quadri. Erano gialle, limpide gialle nel mio giardino. Neppure il tempo di una fotografia e due cesoie se le sono portate via. Spero in un vaso, a dirla tutta, o in un dono. O anche al cimitero, perchè no? Rose gialle sulla tomba di uno sconosciuto, posate gentilmente da un uomo grasso che per saluto… ti volge le spalle.
Questo giardino è ora irrimediabilmente violato. Ha meno pathos di giungla, ha meno ho-qualcosa-da-dirti di quello che aveva nel suo essere scomposto, anarchico, abbandonato. Ora sta lì, qualcuno si è preso cura di lui, pur avendo fatto un lavoro approssimativo: l’erba ancora alta ai bordi, le pietre della conca artificiale spostate, il cane di plastica riverso in un angolo. Un lavoro decisamente sotto le aspettative, le tue, le mie – evidentemente amorfe. Ha messo due sedie però, l’uomo con la camicia a quadri. Due sedie e un tavolino, in mezzo a questo piccolo spazio di verde rigorosamente cintato. Sono due sedie e un tavolino che in qualche modo rendono tutto più semplice, più sicuro. Bisogna riconoscerlo, dargliene atto.
Io esco e vado là e mi siedo. Ho il mio bicchiere di whiskey e le mie sigarette, i fiammiferi e la luna coperta dalle nuvole che comunque, a suo modo, c’è. Scendo sempre intorno alle nove, dieci di sera. I vicini dormono, i miei coinquilini studiano, i miei coinquilini dormono, e io mi sento perfettamente a mio agio là in mezzo, solo. Alla mie spalle, la staccionata di legno che mi divide dal resto del mondo. Davanti a me l’albero di mele stuprato. Sotto i miei piedi delle mattonelle bianche e nere, che vanno a morire nell’erba tagliata con la fretta di abbandonare il campo di gioco. Il whiskey è magico, in questi momenti. Lontano da casa. Lontano da voi. Lontano da un mondo di cui sento, poveramente, la mancanza. Accendo una sigaretta e mi piace tirarla, farla venire, sentirla crepitare nel silenzio della notte in questo giardino spoglio, strappato, asciugato. Passo sotto la lingua un abbraccio di Glenmoriange, ho bei ricordi. Aspettative per il futuro, ansie, zero. Solo la pelle, la carne e i nervi di questo presente.
Allargo le braccia dopo aver inalato, mi distendo. Grande la notte, grande invenzione. Grande la fuga, grande trovata. Mi fermo a guardare l’albero senza le mele, e non so cosa potermi aspettare. Attendo un segnale, un tocco di vento, qualcosa che sposti il tasto, quello blu, quello rosso dentro di me, verso serenità assoluta.
Ma poi lascio perdere, distolgo, è un delirio. Serenità per chi? Serenità per cosa? Meglio continuare così, incrociare le gambe e lasciare scorrere il tempo e lo spazio, tessere in un piccolo angolo. Fumare, e bere. Gli altri che corrano, incapaci di vedere. La bellezza, il succo, lo spago dentro a cose minuscole. Povere. Nuove.
Quando l’uomo con la camicia a quadri ritornerà lo guarderò sul suo naso patatone e gli chiederò tre cose. Che fine hanno fatto le rose. Se crede sia giusto che l’albero, dopo quello che gli abbiamo fatto, continui a darci le mele. E se lui la luna, in fondo, la vede. O se la sente soltanto, muoversi intorno. Come capita a me quando fumo, e la sua ombra si appoggia alle mie spalle. Quando sono solo, sto bene, e non credo che siano poi così rilevanti, queste mele.

mani

Giocano a cricket sul prato bagnato
e la cattedrale è riversa su loro,
acqua sul tavolo nero. Io ti penso,
ho le mani in pasta
la farina si attacca e non riesco a
stenderla come vorrei. Sono grumi
lettere amorfe
pallini marroni.

Il giardino è pronto. Mi aspetta. E’
passato un signore che l’ha reso
abitabile: aveva lunghe basette, una
camicia a quadri come il
suo ultimo drink.

Con le mani sporche esco, il vento il sole,
l’uomo che fa le fotografie impiccato all’albero
di mele.
Una ragazza bionda è passata, per guardarmi,
e dalle sue gambe ho sentito il
vuoto tra me e me,
farina sulle mani.
Si sta asciugando. Crollerà in terra,
ora, come volano le mazze del cricket
o come grandi gocce
di pioggia cariche
dense di sé.

mattino

questo punto è scrivere
di un mattino.
vederlo e rendersi conto che non
tornerà.
tenerlo sulla 
sfera della penna 
sulla lastra del vetro
tra la tenda e 
la stanza. immobile,
fragile.
piccola farfalla che batte
il suo giorno
 debole e unico.

hot-air balloon

siamo distanti, lontani, siamo le mie mani oggi
e le mie mani fuori dalla pancia di
mia madre.
noi, ci proviamo. teniamo aperta la chat
al calare del giorno, scriviamo per scappare
di qua, ci coloriamo gli occhi di nero
fino al mattino.
ora ti sento battere, stai scrivendo di me
stai scrivendo di un viaggio
stai tracciando delle parole
chiavi sparse su un foglio.

su queste pagine, in questi giorni.
su queste illusioni
elettroniche…
vorrei inserire un link ora,
per farci arrivare in un posto
 in cui lo spazio e il tempo
siano geografie alleate
di questo tenerci legati allo schermo.

la lontananza
che ci scordiamo. la lontananza che ammazziamo.
la lontananza coi trucchi che abbiamo
imparato.
la lontananza dei baci accumulati
e risposti sotto al cuscino o piegati
in quattro e poi ancora, intorno ai tasti
di questo pc.

Kimer

Stratosfere intorno al tuo mezzogiorno sono circoli di
Solitudine.
C’è un letto, raffigura il presente. Un capello biondo, un futuro
Che pare essere più
Affascinante.

Dal letto, per quello che sono, posso darti i piccoli tagli
Della mia pelle, i peli e
La marmellata sul pane
Da toast. Dal letto
Le poesie, i rom, i naufraghi
E dei ponti da cui ammirare la bellezza del caso.
I fogli bianchi
Le mie braccia
E gli affetti più potenti.

Stratosfere intorno al presente
sono
Circoli di solitudine. Vagano nell’uranio delle intenzioni, riflettono luci e colori ma
ben poco sanno
sentire e fare
All’amore
che si trova cercando
Nelle piccole cose.


Sent with my phone

mild hooks (soffici reloaded in pidgin english)

to E.

John Coltrane
blowing in our ears
is a tavern open at the edge of this day,
on the border of our next page.
The sky is purple,
like salt pinned on mine
and your lips, and now we do not
hold our hands, now
we glide.
We remain soft, matching our corners,
rehearsing the notes that 
we hear
with fingers like mild
hooks that sail
ours backbones.

soffici



a E.
John Coltrane che soffia
nelle nostre orecchie, è un’osteria aperta
al limitare del giorno
al limitare del nostro prossimo foglio.
Il cielo è viola,
come il sale sul labbro dell’altro
e noi non ci prendiamo per mano, noi
planiamo.

Restiamo soffici, combaciamo
angoli, e ripassiamo le note 
con dita come ami
che ci segnano 
piano.

roma

Vi mandano via:
è una questione di spazio. Ma
loro non sanno, loro,
dalle camicie bianche e tese
dalla pelle oliva e negra
dai cuori torba e agnello, loro
non sanno che
lo spazio è più grande
immenso: infinito. Che
lo spazio si piega, si curva, li inghiotte.
Li porterà via, come acqua nell’Autunno
di un cesso, via dalla storia,
i politici del pitone. Li masticherà,
maciullerà, dimenticherà. E sarà sangue,
gioia, un attimo: e poi nessuno saprà più dire
il loro nome.
E noi staremo là sopra, ancora, come
sempre. Ancora sopra a quel
carro: a ridere
e a bere. Con la ruota in mano, e il sole
sotto la suola. Senza rivolgergli
neppure il saluto
Lacio Drom. Noi i loro fasci
li inghiottiremo,
masticando piano.

(http://www.lemonde.fr/politique/article/2010/09/04/debut-des-manifestations-denoncant-le-caractere-selon-elles-xenophobe-de-la-politique-du-gouvernement_1406955_823448.html#ens_id=1390910)

I ragni del mio giardino

Sono sceso in cucina per farmi un toast. Per produrlo. Pane in cassetta comprato da Tesco, impastato lamiera, in qualche orribile fabbrica del sud est dell’Inghilterra. Formaggio tipo feta, quello economico, denominato “formaggio salato”. Sempre comprato da Tesco, e prodotto chissà dove, con chissà quale bestia, chissà quale follia. Sono sceso in cucina e non ho acceso la luce che qualcosa, anche se sono le due, ancora filtra dalla finestra. Qualcosa di riflesso. Qualcosa che in effetti, per quanto banale sia, è proprio colore d’argento. Ho fatto il toast, l’ho prodotto, ho mangiato. Tutto in un silenzio da carta di giornale non sfogliata. Tutto in un sottilissimo vuoto tra me, la notte e il prossimo giorno. Ho deglutito, cestinato le briciole. Mi sono lasciato alle spalle le porte della cucina, della sala, e sono risalito in stanza, nella mia stanza. Lì, sul tappeto fine marrone, ho acceso due cose: una candela, la mia sigaretta. Ho inalato, espirato. E sono andato verso la finestra con una certa voglia a metà.
Dalla finestra, non vedo la luna. La luna, non la vedo quasi mai. Lì mi sono messo a pensare, volutamente, consciamente. Ho pensato che sono un aggregato di cose che non mi appartengono, ma che mi porto dietro, ma che mi entrano dentro. Quello che vesto, quello che sento, quello che compro. Tutto entra dentro, tutto dentro di me, a far parte di me: nelle vene nei polsi, nei nervi. Sotto i capelli. Nella mia mente. Ne sono affranto, estenuato, stanco. Mi comprano, mi creano. E non se ne rendono neppure conto. Sono abbastanza contento, al contrario, di quello che dico: perchè sto quasi sempre zitto. Silente. Mia madre da bambino mi diceva: piangi sempre. Ora che non mi può sentire dentro, sarebbe felice.
Ho finito la mia sigaretta, e il vento, immediato, me l’ha fatto notare. Tremo. E non posso stare fermo lì, alla finestra, senza far niente. Ma non è per il tremore. E perchè… mi hanno insegnato così. Mi hanno insegnato che se inizio ad amare una persona, devo mettere le mani avanti. Mi hanno insegnato che contemplare è, di per sé, un ozio per una classe a cui non appartengo. (E chi me le avrà insegnate mai queste cose, se non l’uomo che fa il mercato?). In ogni caso, io ho un’intelligenza superiore alla media, e ho trovato le mie vie di fuga: faccio qualcosa, mi tengo occupato, e posso pensare e guardare. Quindi, mi accendo un’altra sigaretta.
Mi affaccio. Fuori il mio giardino pare una giungla cattiva, perchè non vorrebbe essere giungla, non è stata programmata per quello. E perciò si incazza con me, che non la curo, che non me curo, e crea ragni, e altri animali e insetti terribili che non vedono l’ora di violentarmi con la loro rabbia di personaggi in cerca d’autore. Dovrei tagliarlo, potarlo, amarlo, appassionarmici: renderlo urbano. Ma io sto pensando al Napalm in questo momento. I ragni del mio giardino devono morire. Tutti. E sto pensando anche – fumo con la sinistra e non mi lamento – che vorrei sentirmi dire da te, in questo momento, tante cose. Tutte quelle cose di cui ho bisogno, tutte, insieme, come un abbraccio, come una certezza. Io di certezza te ne darei tanta, posso farlo, ne ho come sigarette, all’infinito, che posso non mangiare, per fumare, io. Ma la luce riflessa e in fondo anche i ragni del mio giardino non curato, mi dicono che non posso chiederti nulla, nulla di più. Che non posso pretendere nulla, nulla da te. Che dobbiamo solo scoprirci, come due cipolle. Le cipolle che nel giardino non ho, perchè non le potrei sopportare. Le cipolle di questi pensieri a più strati, di questi racconti decostruiti, di questo castello itinerante che è quello che sono. Quello che non sono.
E così faccio volare giù questa cicca, me la chiudo come un ennesimo pensiero, alle spalle. E mi sento un po’ solo, ora. Un po’ fragile, non c’è neanche la luna. Che non c’è mai la luna. Un lato di me che non vorresti vedere. Mi sento come nel momento prima di entrare sotto le coperte, quando le hai già alzate e sei lì a metà: nudo. Senti un tremore dai piedi. Ti senti scoperto, nel senso di visto, beccato, indifeso. Un attimo prima dell’essere veglio e l’essere morto. Mi sento così, come quando sei con la spalla mezza piegata e il gomito sul materasso: indifeso.
E il mio sguardo si fissa sull’unica parte della parete, la mia parete, dove c’è ancora del bianco. Lì, vedo noi, ora. Vedo tutta la tua voglia di fare, partire, toccare, baciare. Vedo me, un insieme di linee che non posso definire. E un po’ mi fa sorridere, un po’ la sfumo. Un po’ cerco di metterla a fuoco, e la capisco meno. Mi chiedo fino a quanto io sia pronto ad accettare di slegarmi verso di te. Mi chiedo quanto sei bella, e sto bene. Infine, mi rispondo pure. Mi rispondo che è tutto un gigantesco gioco a cui sarebbe troppo stupido tirarsi indietro e non giocare.
Continuo a non sapere. Mi tolgo i pantaloni, la maglia, le mutante. Mi guardo dall’alto in basso. I miei piedi, i peli, le gambe, il mio pene lì, fermo. Riflessivo. Mi ricordo la pancia e le dita in gola. La barba e l’orecchino. Quella finestra, il vuoto, la notte e le scale da solo. I capelli lunghi. Sono un uomo, un aggregato di parti umane e non umane, un elemento scomposto nella ragione superiore delle cose. E dico, va bene. Tu non c’entri nulla, tu non sei altro, sei oltre. Mi aspetto poco, proprio poco. Mi aspetto un abbraccio, una carezza. La certezza che ci sei. Mi aspetto di poter imparare e, imparando, di dimenticare.
Alzo così le coperte un’ennesima volta, ma con una certezza… maggiore. Mi sento meno nudo, meno solo. Allungo la mano, chiudo la finestra, e lascio dietro di me i ragni di questo vecchio giardino.

con una parola

Provocare dolore, con una parola.
Provocare quel taglio
con una poesia. Alla persona che hai amato
al giorno che era e non è più.
Al ricordo, la consegno al futuro la
nostra storia. Oggi, ci sono solo parole.
Stanno lì su pezzi di carta dai bordi
sottili, li prendi, li giri. E ti segnano le mani
quando arabeschi
color amaranto
colorano i loro
spazi di bianco.