o anche solo quello
di sentirmi quassù.
battiti di una luce
contro questa parete
gioia: la camera da letto
e tre viole messe apposta piegate premute
dentro all’amplificatore.
Come sto, mia cara,
distrazione. Dai doveri dai progetti dalle mie cose,
come sto, mia cara ampia bottiglia
che metti la pancia verso ovest
quando l’onda ti schiaffeggia, il cielo è bruno,
il sale degli scogli là-in-fondo:
un labbro screpolato
che viene morso da sé, è lei che prova, ci prova
a venirti incontro, ma l’orizzonte la
sovrasta. E l’alba si soffoca, ala che
si spegne come mano
chiusa.
Sarà stato un telo, plastica bianca, trasparente. Quello usato dai muratori da mettere in terra, là, appeso alla gru di fronte a casa mia, un telo bianco svolazzante a mezza altezza sulla torre piantata tra alcuni palazzi ormai un po’ scrostati, fatti anni ’60, cartongesso e tubi ramati. Dietro, la città, con tutti i suoi palazzi, le solite cose – il dito di mussolini con un altro telo svolazzante verdebiancorosso, sulla sinistra la mole che è un non-sense molto bello però. Esco sul balcone prevalentemente per prendere e riporre lo stendibiancheria, e fumare. Ovvio, fumare. Accendo, inspiro. Butto fuori l’aria la lascio andare.
Oggi gli studenti a pochi passi da qui stanno manifestando. Si fanno trainare un po’ dalla folla di cui fanno parte, un processo interessante, una specie di domino dominio, credo. Dovrei approfondire. Mi sembra di sentirli, tendo l’orecchio: una voce gracchia da un megafono, la sento male. Poi afferro meglio Arance 3 euro la cassa, signore! Il tipo gira col suo furgoncino in questo quartiere. Ha l’alito che sa di vecchio e le mutande a quadri. Solo 3 euro belle le arance signore! Un’altra forma di manifestazione. Continuo a fumare.
Manifestare è una sorta di allenamento, un’esperienza da fare. Il petto si gonfia, scorre sangue nelle vene, sai di questo e di quello parli guardi ti fai guardare. Quante volte l’abbiamo fatto? Non capisco ora se provo per questi poveri studenti che scrivono compiti da 13 a cui si dà 18 per commiserazione (e voglia di vederli andare via) compassione o commiserazione. Probabilmente nessuna delle due: fanno quel che credono giusto fare ora, qui, in questo autunno, loro. Bene.
Continuo a fumare mentre guardo il telo che schiaffeggia la gru. Sbatte e si ritrae, torna alla carica poi il sole ci passa attraverso e lui lo apre e lo chiude. Legato al suo bastione, a volte cade, moscio. Si riprende, sbatte. Ritrae. Manifestazione.
Gli studenti vanno scemando per le strade. Sono andati un po’ da Ciro Pizza, un po’ al Bar degli Artisti, un po’ a scopare come ricci nelle loro mansarde senza riscaldamento. Sono coiti mediocri, brevi. Al loro posto, mentre spengo la sigaretta contro la ringhiera, sento ronzare intorno a questi palazzi il vespino Belle le arance, signore! con quella voce gracchiante che entra nei cortili fatti di cemento e lamiera rimbombando: arance, signore… nce, ore… e, e… Il sole va calando anche lui, fa un arco sul mondo e sulle vetrate che, scintillando come quando si apre un’arancia gialla e succosa, mi indicano la via della rivoluzione: la costanza del vespino, la costanza della routine, di un megafono, di un odore. Chiudo la finestra alle spalle e torno a studiare.
le stazioni della polizia postale, tinte anni fa
col loro atteggiamento fascista, rettangolare
e scrostato, o le tapparelle di uffici battuti dal sole
dove la polvere fa tappeti dentro moquette:
ci fa caldo dentro un caldo che preme e trattiene.
gli alberi piantati nel mezzo di piana
e i tetti sfondati di marcio con le porte ben chiuse,
i ragni all’umido addiaccio.
i fili smagliati tirati, onde lunghe
nelle risaie come un riflesso striate sul cielo,
coi tir fermi immobili a pensare a dormire
su strisce di cemento che portano
a eterotopie coperte di nebbie e di sale.
i tubi gialli del gas, tirati su dalla terra,
due stivali abbracciati nel fango. Una ruspa gialla
ferma nel cortile di una cascina
è un monumento che stende il suo braccio
a riposo sul mondo.
Continuo ad amarti.
quanta pazienza abbiamo avuto, oggi,
di quelle risate d’ovatta e camino, di quelle zampe
di gatto, il suo pelo striato
sui divani dove i nostri mesi migliori venivano
a fare la questua alle aspettative future, dicendo,
non ci aspettate, non ci aspettate,
godete di ogni momento, godete senza
chiedervi mai, com’è.
quanta pacatezza, nei tuoi movimenti,
incrociare le tue mani
le sue zampe
quanta semplicità,
parlargli in una lingua da baciare,
far passare i minuti distesi
senza aver paura del prossimo
esame da venire. Sentirti finalmente distesa
su me, sentirti così chiamarti amore e
vedermi girare…
si aprono come fa il cucchiaino nella tazza le tue dita
tra i capelli un piede che-affonda-nella-sabbia;
un battito di ciglia di un angelo ha fatto uno squarcio nel cielo
è fiondato il mattino quando il pescatore ha voltato
le spalle e ha incrociato l’odore
del sale un gioco di denti su per le vene