(bozza – 1)

di corsa in cosa di scontrino in scontrino
ho passato le mie mani più in tasca
che altrove, il ripiano di questa scrivania, la
tua fretta e la tua inadeguatezza:
vorrei spazzarle via ora come fa la madre mia con la
scopa di saggina nelle case altrui 
dove tesse pozioni che mi hanno fatto
crescere tanto:
che freddo su questi balconi, 
che freddo di aspettativa,
invece di farti uscire ti avrei dovuta tenere a me, qui
soli per me,
riempirti d’acqua e berti:
guardarti entrare in palestra di notte
affacciato al marciapiede che è un promontorio proteso
verso il migliore paesaggio;
la tua giovane schiena che mi saluta,
senza che tu artista 
debba sentire il bisogno di voltarti,
o anche solo quello
di sentirmi quassù.

moods

battiti di una luce
contro questa parete
gioia: la camera da letto
e tre viole messe apposta piegate premute
                  dentro all’amplificatore.
Come sto, mia cara,
distrazione. Dai doveri dai progetti dalle mie cose,
come sto, mia cara ampia bottiglia
che metti la pancia verso ovest
quando l’onda ti schiaffeggia, il cielo è bruno,
il sale degli scogli là-in-fondo:
un labbro screpolato
che viene morso da sé, è lei che prova, ci prova
a venirti incontro, ma l’orizzonte la
sovrasta. E l’alba si soffoca, ala che
si spegne come mano
chiusa.

l’angolo del cielo

Il ballo più bello, ballerina, 
tip tap fra tasti bianchi
e la luna riflessa 
di questa tua grande schiena…
“quando arrivi, quando verrai per me, 
guarda all’angolo del cielo”

un bacio è là nascosto 
pendente dal mio labbro
un bacio è là a colare
disegna i suoi puntini
per il giorno in cui
con questa penna tinta rossa
per il giorno in cui
userò il cielo come carta
e nella notte io farò
con metafore e col sale
di te costellazione.

manifestazione

Sarà stato un telo, plastica bianca, trasparente. Quello usato dai muratori da mettere in terra, là, appeso alla gru di fronte a casa mia, un telo bianco svolazzante a mezza altezza sulla torre piantata tra alcuni palazzi ormai un po’ scrostati, fatti anni ’60, cartongesso e tubi ramati. Dietro, la città, con tutti i suoi palazzi, le solite cose – il dito di mussolini con un altro telo svolazzante verdebiancorosso, sulla sinistra la mole che è un non-sense molto bello però. Esco sul balcone prevalentemente per prendere e riporre lo stendibiancheria, e fumare. Ovvio, fumare. Accendo, inspiro. Butto fuori l’aria la lascio andare.
Oggi gli studenti a pochi passi da qui stanno manifestando. Si fanno trainare un po’ dalla folla di cui fanno parte, un processo interessante, una specie di domino dominio, credo. Dovrei approfondire. Mi sembra di sentirli, tendo l’orecchio: una voce gracchia da un megafono, la sento male. Poi afferro meglio Arance 3 euro la cassa, signore! Il tipo gira col suo furgoncino in questo quartiere. Ha l’alito che sa di vecchio e le mutande a quadri. Solo 3 euro belle le arance signore! Un’altra forma di manifestazione. Continuo a fumare.
Manifestare è una sorta di allenamento, un’esperienza da fare. Il petto si gonfia, scorre sangue nelle vene, sai di questo e di quello parli guardi ti fai guardare. Quante volte l’abbiamo fatto? Non capisco ora se provo per questi poveri studenti che scrivono compiti da 13 a cui si dà 18 per commiserazione (e voglia di vederli andare via) compassione o commiserazione. Probabilmente nessuna delle due: fanno quel che credono giusto fare ora, qui, in questo autunno, loro. Bene.
Continuo a fumare mentre guardo il telo che schiaffeggia la gru. Sbatte e si ritrae, torna alla carica poi il sole ci passa attraverso e lui lo apre e lo chiude. Legato al suo bastione, a volte cade, moscio. Si riprende, sbatte. Ritrae. Manifestazione.
Gli studenti vanno scemando per le strade. Sono andati un po’ da Ciro Pizza, un po’ al Bar degli Artisti, un po’ a scopare come ricci nelle loro mansarde senza riscaldamento. Sono coiti mediocri, brevi. Al loro posto, mentre spengo la sigaretta contro la ringhiera, sento ronzare intorno a questi palazzi il vespino Belle le arance, signore! con quella voce gracchiante che entra nei cortili fatti di cemento e lamiera rimbombando: arance, signore… nce, ore… e, e… Il sole va calando anche lui, fa un arco sul mondo e sulle vetrate che, scintillando come quando si apre un’arancia gialla e succosa, mi indicano la via della rivoluzione: la costanza del vespino, la costanza della routine, di un megafono, di un odore. Chiudo la finestra alle spalle e torno a studiare.

questo mio posto

le stazioni della polizia postale, tinte anni fa
col loro atteggiamento fascista, rettangolare
e scrostato, o le tapparelle di uffici battuti dal sole
dove la polvere fa tappeti dentro moquette:
ci fa caldo dentro un caldo che preme e trattiene.
gli alberi piantati nel mezzo di piana
e i tetti sfondati di marcio con le porte ben chiuse,
i ragni all’umido addiaccio.
i fili smagliati tirati, onde lunghe
 nelle risaie come un riflesso striate sul cielo,
coi tir fermi immobili a pensare a dormire
su strisce di cemento che portano
a eterotopie coperte di nebbie e di sale.
i tubi gialli del gas, tirati su dalla terra,
due stivali abbracciati nel fango. Una ruspa gialla
ferma nel cortile di una cascina
è un monumento che stende il suo braccio
a riposo sul mondo.

A quattro mani

(Eleonora Mignoli)
***

Continuo ad amarti.

ascolto la batteria che fa il legno nel camino, è un popcorn per poveri senza popcorn
Continuo ad amarti, e sono qui, nel mezzo di questa sinfonia fatta di noi. Ti guardo.
ascolto anche altri suoni. Stanno tra le zampe del gatto e la coperta. La pioggia là fuori. Sono con te, la cassa di risonanza migliore. Accendo una sigaretta invisibile e ti prendo la mano.
Continuo ad amarti. La mattina, subito fuori dai sogni, quando mi sveglio d’apnea e d’angoscia, tu ci sei. E tra le tue mani si stemperano le mie paure.
ascolto un minuto di sospensione, ora. Il minuto che si regge tra le cose che fai per me e quelle che faccio per te. E’ il minuto del vuoto nero sotto il mobile – della scatola di latta chiusa – dell’ombrello nel ripostiglio. Il minuto sconosciuto, lo ascolto, ora, e ora con te quel minuto non fa più paura. 
Continuo ad amarti. E’ un continuare che si espande in direzioni di nuvola, un sotto e un sopra rovesciati. Continuo ad amarti, come ti amavo quando ancora non c’eri – ma già ti avevo dentro. Dentro alle piccole cose, tu ci sei sempre stato.
ascolto le tue unghie. 
Continuo ad amarti, sulle corde di un violino infinito. Io. Continuo. E’ dolce, questa tensione, questa linea che mi attraversa. Non finisce. Tu mi attraversi.
ascolto le tue ciglia. Ho le gambe incrociate.
ascolto il tuo seno. Ho le labbra imbrigliate.
Sto per prendere di petto questa nostra situazione. Ho le mani come bocche allappate.
Continuo ad amarti. Posso solo smettere di battere qui, e battere sugli scogli del tuo essere, così vicino. Così vicino.
Così.
Vicino.
Tremare perchè finalmente ti ho vista. Tremare perchè finalmente ho il coraggio di mettermi dentro. Lasciare stare ogni motivo d’ascolto, chiudere con la lettera circolare che mi unisce a te per ogni prossimo giorno. Grazie, LeO. (con un afflato dalle labbra il personaggio sussurra t’amo).
Così.
Vicino.


***


(Michele)

family portrait

quanta pazienza abbiamo avuto, oggi,
di quelle risate d’ovatta e camino, di quelle zampe
di gatto, il suo pelo striato
sui divani dove i nostri mesi migliori venivano
a fare la questua alle aspettative future, dicendo,
non ci aspettate, non ci aspettate,
godete di ogni momento, godete senza
chiedervi mai, com’è.

quanta pacatezza, nei tuoi movimenti,
incrociare le tue mani
le sue zampe
quanta semplicità,
parlargli in una lingua da baciare,
far passare i minuti distesi
senza aver paura del prossimo
esame da venire. Sentirti finalmente distesa
su me, sentirti così chiamarti amore e
vedermi girare…

Into my arms

a F.

si aprono come fa il cucchiaino nella tazza le tue dita
tra i capelli un piede che-affonda-nella-sabbia;
un battito di ciglia di un angelo ha fatto uno squarcio nel cielo
è fiondato il mattino quando il pescatore ha voltato
le spalle e ha incrociato l’odore
del sale un gioco di denti su per le vene

E se fra queste dita posso
riconoscerti tale,
padre

si aprono, ombre candele: fiamme scomposte sul muro
fessure tra le tapparelle da cui sale improvviso
il grido di gioia di una donna sorpresa d’amore sulle sue 
scale a venire, si aprono come quelle telefonate che dicono
di numeri oltre la soglia entro cui
il corpo decomposto continuerà a respirare
Io credo nell’amore
nei tuoi odori
nelle tue 
mani arate
così

sono improvvisi 
lambiscono il volto
quante volte ci sono passati accanto quante volte ci hanno
abbracciato per un momento: la morte è 
ovunque è come la bellezza riflessa di 
questo nostro giorno
improvviso come una bocca impastata
rossa di vino che allappa
Io le unisco 
perchè tremo per me.
Mentre sono 
qui sono
qui io
sono
Eretto per te.
quando ci mancherà il fiato per le nostre letture
avremo avuto ragione 
di tutto ragione, fino ad allora fermi qui, a guardarle aprirsi e 
andare, il bicchiere passato di mano il presente
impastato come un ricordo dove rimangono solo le rughe
di cui sia benedetto
il sole e le pupille che hanno il coraggio di bruciarsi
in suo nome.
Ti stringo tra le mie braccia,
ora, 
se non mai, 
con la forza
che ho
col fiato che –
e ti tengo sul seno.

Io credo 
l’amore ci
credo.

quiete as a mouse since the words come out (with no fear about)

Se il giorno fosse solo l’espressione che hai al mattino
le tue labbra secche e segnate se fosse, lui, 
l’andare dal panettiere con incedere lento
a comprare i cornetti da mettere in frigo, se fosse.
L’accensione delle candele
la mano che sfiora un capezzolo ritto, 
il bagno caldo e la mostra
attraversata come due insetti con pance-gonfie-dall’alcool. 
Correre in un parco per sottoporci a una fotografia impossibile,
per sfregio del tempo
a coronamento del tempo.
Se il giorno fossero solo le tue mani intorno al cellulare,
la tensione di un messaggio da inviare, se fosse,
lui, non altro che il sistemarti i capelli 
per me, 
se io potessi imparare, dato il tempo e gli eventi, 
a stendermi su quello che ho
trovando il livello giusto da reprimere,
allora sì, ti abbraccerei
senza chiederti come stai.
Aprire e chiudere i libri
toccare e non toccare i tuoi fogli:
se fossi capace ti amerei senza tirarti verso 
di me, ma farei il verso giusto che porterebbe
queste giovani prose 
a venire dalle tue labbra
come poesie. 

ora solare

questa strada, è notte, le risaie negre e la pioggia
la luce rossa del contagiri, calda compagna. 
sono venuto a trovarti nell’unica ora in cui posso restare
nell’unica ora in cui dormi e l’insonnia non c’è
nell’ora tirata indietro dall’uomo che
tiene il ferro delle regole e tiene il tempo 
della sua 
fragilità. 
l’ora delle stelle già morte
gli intarsi delle serrature mai aperte
le maglie riposte e
quei segni, accumulati fra
nei sotto-la-pelle.
guidando, 
sono venuto nell’ora dell’ora che ripassa e non c’è
per chiederti di aprirmi gli occhi così
come due arance
e scuotermi come lo spruzzo che fanno
  quando hai le dita che ci affondano dentro.
Poi ti ho riflessa, e 
mi sono voltato:
la linea bianca del battistrada era un filo
da prendere tra le dita,
la notte un colore adatto al primo giorno
in cui ti ho afferrata,
le nostre mani in bilico a rincorrersi sull’ora smarrita.