Piano quinquennale thinking

My Pillow: Too Cool.
Stamattina, ore 7.30 locali, sono andato a un thinktank meeting. Architetti Ingegneri Giovani Funzionari della Città Accademici Young, tutti insieme si trovano una volta alla settimana e parlano di design thinking, bevono il caffé, mostrano le tette e fanno giochi cooperativi. Si mettono intorno a un tavolo e tagliano pezzi di carta ci disegnano su e dicono cose che non possono essere contraddette, sono così ovvie, lisce, piane, le loro cose. Sono right. Poi alle 9.30 se ne vanno a lavorare, col sorriso sulle labbra, right, loro. Stamane c’era un tipo che ha presentato una cosa sulle bici in città. Va bene, ok. Alla fine ha detto: noi dovremmo smetterla di pensare come un HP (simbolo di HP proiettato sul muro) ma dovremmo pensare come APPLE (mela morsicata sul muro): liberi, innovativi, propositivi, creativi.
Gli avrei mozzicato la testa, gli avrei.
Lo scalpo, creativo, gli avrei.
Però ho mantenuto la calma. Io vado lì per studiare. Per vedere. Per capire. Non lo deve sapere nessuno ma sto lavorando a un progetto di ricerca per la distruzione del design thinking. Sono troppo cool, loro. Right loro. Io sono molto più semplice. Ora mi metto qui e traccio una linea, un confine, e divido i buoni dai cattivi.
Voglio tornare al piano quinquennale. Voglio il piano quinquennale thinking, io. 

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Practicing space, organizing the future – APROS 2012, Auckland

The 14th Asia-Pacific Researchers in Organization Studies Conference

Nov 29-Dec 1, 2011 School of Management, Massey University Auckland, New Zealand

Practicing space, organizing the future

Relying on the latest geographical strands on spatial theory, this paper argues that “organization” is a spatio-temporal matter that emerges from the practices through which contexts are built, performed and enacted. Introducing a Lefevbrian-based understanding of social space (Lefebvre, 1991; Soja, 1996), and integrating it with a more-than-human account of relationality (Whatmore, 1999), this work proposes an account of space as a relational more-than-human product that cannot be neither fully controlled nor entirely predictable in its outcomes. Starting from these premises, the question of how we might organize things in space, in order to achieve certain future outcomes, is presented in all its ambiguity. Is it possible to organize space assuming that space is in continuous, unpredictable, motion? Can the future space being imagined and controlled? Is it possible to dissociate organizational aims from the spatial situatedness of the organizer him/her-self?

More on my research on space, here.

Produrre.


Ho in mente il pubblico, quando scrivo. In mente l’emozione della lettura in pubblico, quando scrivo. Vorrei passare la mia vita a leggere, in pubblico. E’ tutto molto più vero di quello che sto per fare: diventare una macchina per produrre articoli accademici di secondaria importanza pubblicati su riviste quotate molto in alto da consumare nel tempo di una quote.

Mi pagano bene.

Questa cosa qui è come ascoltare un pezzo dei Coldplay, sai già come va a finire. Questa cosa qui è come essersi persi per tutto e per tutti. E’ come se con la lucidità uno ci si fosse pulito il c: nel futuro in cui sarò – vedo troppo bene la linea di demarcazione.

E’ pericoloso sapere dove si andrà a finire.

Linea di fuga linea di fuga multipiano azione, ribaltare: allenarsi continuare a fare flessioni sulle parole. Oggi una mia amica scrive:

Nel frattempo ci restano le parole,
che comunque
volendo
non è poi proprio niente.

(Claudiet)

Ragione. Darle ragione farlo proprio. Tornare a non dare per scontato.

Domani andrò a lavoro tenendo a mente che quello che sto per fare è produrre. Questa è la chiave. Produrre cose che non si possono consumare: modificare, annientare, scopare. Riprodurre, sì. Stare attenti ai dettagli della vita quotidiana che sono la chiave per restare attenti, godere. Non si possono consumare. Che non si possono consumare.
Ciò che è nostro è nostro, e ci spetta.



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What if I got it wrong?

I piedi che tagliano a fette la sera, Capitano,
ci portano incontro ai dettagli,

aprono squarci su mondi che non conosciamo
universi lontani, dalle sciarpe
dai lacci delle scarpe, dalle cose, per dire,
che uno fa perchė deve,

universi a tre piani, fuori tempo e luogo come un
pezzo di terra marrone
preso per caso per mano per dita
che ti fa rendere conto, mio Cavaliere,

che la cosa più semplice è
sempre quella rima da non asciugare
quando scende.

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Abu Dhabi 2011

Abu Dhabi. Il petrolio fatto cattedrale, il deserto.
Centri commerciali giganteschi, moschee con lampadari da 8 milioni di dollari, hotel che di miliardi di dollari ne sono costati ben 3. Tre.
Le strade sono la cosa che sorprende di più, ad Abu Dhabi. Tre, quattro corsie in una direzione, altrettante nell’altra, deserto ai lati, diritte verso palazzi-stuzzichi-all’orizzonte illuminato da una palla rosso pompelmo che è lo stesso sole tuo. Quello del campetto da basket a Verrone.
Sette emirati, uno più ricco dell’altro, l’acqua irregimentata dentro a piccoli tubi di plastica che scorrono sotto il verde delle aiuole e delle passeggiate dove non passeggia nessuno perchè non si può, fa troppo caldo, caldissimo afossisimo: panchine ordinate che segnano le ore scandite dall’ombra dei lampioni. Accesi per sport.
Sfoggio petrolifero.
Abu Dhabi. E gli operai a cinque dollari l’ora accampati chissà dove. Le gru, l’aria condizionata che condiziona ogni spostamento. 5 stelle superlusso sulla testa di questa notte giocata sulle note della penisola arabica, cantata in qualche privé di un Redisson Blu Hotel.
Abu Dhabi. Vietato l’ingresso ai cittadini istraliani e l’accesso a UPorn.
Voliamo via domani scrollandoci la sabbia di dosso, ridendo in faccia al parco giochi marchiato Ferrari, sorvolando petrol-dotti che segnano il ritmo che ha il cuore nel petto.

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Nocturne

La centrifuga della lavatrice si aggrappa alle scale
viene qua, si confonde con noi,
il crepitare del vinile,
il sospiro della madre
che si siede
quel Ci vediamo ancora domani
che posa il suo piede
a tirarci fuori lacrime come confetti.

Festeggiamo, siamo vivi,
a tentoni celebriamo
senza ricoprirci di troppe parole,

tendiamo l’orecchio
al colore,
soffocando della malinconia dell’altro.

clean

vedo chiaramente avanti a me gli impegni
di una vita che non mi appartiene
gli appartamenti arredati con fatica della precedente
dove ho già fatto posare la polvere
da uomini vestiti di nero
che salutano con il pugno chiuso,
un occhio nero, l’altra metà della Luna,
il ripostiglio tenuto sempre chiuso,

la figura di un uomo che cammina sciogliendosi
piano a contatto con l’acqua che
viene ad
accompagnarselo via.

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Pics, 1

Degli odori, apprezzo la sera
le sue gru vigili
e l’eros altrui,
tende rosse:
mono,amore,locale.

Il cielo di questa città viola.

Il palazzo in costruzione che
continua a urlare.

Le coperte.

Arrese…

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