Rubinstein

Mi sono dovuto alzare per regolare il volume del mio amplificatore, nero, ruotare le grande manopola per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein leggere sulle note scritte con il culo dell’oca da mastro Chopin, Chopin, che nome già di-per-sé inequivocabilmente retrò. Sovrastare i bicchieri dei vicini, le loro televisioni, e quelle voci che sono sempre a metà tra lo stupito lo stupore che rimbalzano sul parquet, fanno l’amore con una striscia di cemento poco armato e vengono da me. Riempono i buchi, la malta fatta male, lì un po’ si disperdono, un po’ passano, ed eccomi qui che mi alzo per le loro scoregge serali per aumentare il timbro, le dita di Rubinstein da un vinile un amplificatore. Le voci, gli squittii dei bambini, quelli non si possono coprire, proprio no, sono immensamente più grandi di me di questa stanza del palazzo intero e di Dio, che non c’è, ma è comunque, inequivocabilmente, lui. La febbre mi sta coccolando, è lei che ha i seni turgidi per me questa sera, la febbre, mi fa stare bene. Si è avvicinata senza chiedere permesso e mi ha avvolto, lei, una cicciona, con quelle sue tette enormi e un fondoschiena morbido sapore-del-burro. E’ stretta a me, qui, non se ne va, grassa matriosca dai rotoli rosa che scendono giù, mi scalda, e a tratti ho delle erezioni, a tratti mi rendo conto che si tratta solo di difetti, piaghe dei miei pantaloni sporchi lebbrosi. La febbre, mi tiene compagnia, Rubinstein fa la sua parte, i messaggi che continuano a suonare, continuano a suonare. Come viatico della febbre girano loro, attraversano le strade, i ciotoli i bidoni le piazze e arrivano a me: che suono. Sono un uomo chiuso, c’è la grande cicciona, con queste ombre delle mie dita che sembrano ricalcare il lavorio di Rubinstein ma questo lo dico solo, posso dirlo solo, perchè non capisco niente di pianoforte, musica e corde – le nostre corde. Niente di come si sta insieme, all’oggetto. Niente, delle sue scale, dei suoi cazzi-per-mostra-niente, e così me ne resto solo con le dita che fanno su e giù sulla tastiera, convincendomi poco, accarezzando il seno della febbre mia turgida e aspra come la cellulite; il pelo del limone; una sera come questa che manco Rubinstein, dico io, che manco Rubinstein riesce a suonar.
Chiudo lo schermo, scendo dal letto faccio tre passi e sto già tenendo in mano la chiave. E come il mio cazzo, enorme, fine fine sottile cacciavite d’acciaio per le porte dei microbi e delle illusioni: Apro la porta e mi ritrovo su un pezzo di marmo che dà sulle scale. Il tappeto, arrotolato. Il campanello, storto. La luce che mi-fa-cacare. Accanto a me, il mio vicino di casa, nella stessa posizione, con una pancia da rumeno che solo lui sa, guarda fuori dove sto guardando io e ci sono solo scale che scendono, scale che vanno su, lui ha lo sguardo cattivo che ha sempre, non mi saluta se non lo faccio io e io lascio perdere, così come lascio la porta aperta alle mie spalle mentre vado giù, affiancato da pareti verde ospedale e alte soffitta, corrimano marrone, finestre sporche nelle giunture. Vado giù, giù, ma non esco da questo palazzo, scendo ancora nelle sue viscere nella sua forma di arteria polmonare, ancora, ancora, Godiamo!, alla base della sua ragione oltre le cantine il cemento che le sovrasta, e le fondamenta di pilastri conchiglie, rappresaglie, vecchie misure. Non le avevo mai notate, io, queste scale. Quanto sono lunghe, Oh! Quando silenzio che c’è, quaggiù: solo il rumore dell’umidità e una nota, una sola, che ancora proviene dal mio amplificatore. Tentenna mi segue arriva entra e poi non c’è più, sparita, anche lei, Vado giù, ancora più giù. Un po’ mi manca, la febbre, calda e cicciona. Un po’ no, un po’ meno. Continuo a scendere e fa freddo, non c’è luce, alle mie spalle già decine di metri, lassù il mio appartamento aperto vuoto forse il rumeno-culo-di-vacca ci è già entrato. Starà cercando qualcosa. Povero uomo, a tentoni, piegato a cercare la testa che non ha battendosi le mani sul cranio, lo immagino, lo vedo. Io scendo. Mi costruisco passo a passo il motivo per cui questa sera mi sono preso l’ennesimo raffreddore bronchiale e mi reggo in piedi in silenzio. Passo dopo passo rientro nelle mie note alla radice di quello che mi fa stare meglio, la lontananza. Il bisbiglio che fa la notte chilometri sopra di me, là fuori. Tutto intorno… come un grande enorme ventaglio. Pavone. Io microbo che cerca la sua quiete, scavo, e con la mano sopra la mia testa chiudo il resto, le gente i palazzi le strade i cesti della frutta i piatti da lavare. Inarco la schiena, il passaggio è stretto. Sto ancora per un sospiro, non sento più niente, bene.

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