fondamentalmente

Fondamentalmente è l’avverbio che usi di più. Un giorno mi sono messo a contare quante volte lo impieghi. Non te l’ho mai detto, ci saresti rimasta male: la piega delle tue labbra immature mi avrebbe detto permalosità. Quindici volte, in un giorno, fondamentalmente. Può sembrare poco, a leggerlo quaggiù, ma ti assicuro che sono parecchie. Fondamentalmente, fondamentalmente, fondamentalmente, io faccio sempre lo stesso errore. Mi chiudo in cucina, accendo le candele, bevo ancora una vecchia bottiglia di whiskey che mi è stata regalata da una persona che non conosco più, ascolto Ludovico Einaudi al piano, scrivo.
Mentre sei di là, distesa sul letto. Le coperte pesanti, come doveri, ti tengono al caldo e conciliano il sonno, il tuo sonno pieno di sogni di draghi di sessi. Io al mattino me li sorbisco tutti i tuoi sogni, li ascolto mentre sei ancora mezza addormentata e fai colazione dietro ai tuoi baffi, con gli occhi spenti e l’alito tetro di ognuno al mattino, li ascolto, i tuoi sogni. E sono sempre pieni di questo e di quello, terrificanti e bellissimi, molle impazzite senza divano. Li ascolto senza pensare ad altro. Guardandoti ridere di loro e di te, impressionata dalla tua stessa immaginazione come il bambino che flautolenzia e gli si apre il cuore – perdona l’immagine, fiore. Fiore, sì, fiore: ti guardo quando ti stai per vestire. Nell’attimo prima di impazzire e fare tutto in un lampo minuto secondo, quattro cose che ti rendono calda e attraente per gli sguardi del giorno, quelli delle finestre delle gambe delle scoperte. Ti guardo, fragile tesa tra questo e quell’orizzonte. Impegni confusi, idee non chiare. Ti guardo e mai mi chiedo che ci sto a fare con te. Fondamentalmente. Fondamentalmente.
Trovare una ragione tra le dita e i tasti del piano, fiore.
Ti guardo lottare, per me, in fondo so che lo fai. Con un occhio di riguardo pur sempre rivolto altrove, lo fai, ci provi, lotti per me, lo so che lo fai. Ma sei giovane, tu. Devi sperimentare. Il tuo cuore e la tua mente non possono essere impegnati nella cura di un uomo che ha tanto di bello quanto di apparentemente qualunque. Rileggere. Fondamentalmente.
Sono debole. Sono fragile. Sono uno che si è lasciato passare in mezzo da troppe persone e troppe attenzioni vocate. E ora ritrovare me stesso, ancora una volta, provare a farlo non essendo da solo: più difficile, più duro, più marmo contro cui sbattere il muso. Mentre questa casa che abbiamo preso con le unghie questa sera è un po’ piegata su sé, un po’ spenta. Mi somiglia. Coi suoi muri alti anni ’60, un ambiente che può essere accogliente e patrigno, basta volerlo, sceglierne uno, et voilà, questa casa si trasforma come me da amabile amante a conduttura intasata e brina di notte. So cosa stai pensando, so cosa hai scritto senza leggerlo, so quante vertebre ha la tua schiena senza averle mai contate lungo tutti quei massaggi: lo so e mai mi chiedo che ci sto a fare con te, mai lo chiedo battendo le parole che ho imparato quando ero bambino, seduto sul banco da solo. Mi chiamavano cochon, porco, ciccione, e io piangevo e sapevo perfettamente che avevano ragione. Mia madre: ma sei solo robusto, Nachele. Oggi, una menzogna che non potrei più accettare. È meglio la realtà, guardiamola in faccia: sono un medio, un testa pelata grossa la faccia piegate le spalle storta la schiena, sono un finto magro largo grasso, parlo e le guance mi si gonfiano come le gonne delle mie vecchie cameriere, medio, comune, Avanti!, bruciamo la sede delle false illusioni d’essere preso sul palmo e portato per una volta alla soglia della fine dei gradi del mondo – mai ci si arriverà, non ci si può arrivare, la realtà è un’altra, per me sei questo ma oggettivamente no. Fondamentalmente, mi chiedo perché devo ancora starti a sentire, e allora mi chiudo in cucina, ti mando in bianco, e respiro con l’unico battito che mi viene naturale – la dizione digitale.
Eppure tu, tu sei la donna che amo.
Fondamentalmente non mi sono mai chiesto perché sto con te se non come espediente per il pathos di quello che scrivo, sono gemelli ascendente gemelli uno stronzo che si traveste da bambino e ti prende in giro. Se sto con te non ho bisogno di trovarmi una ragione: ci sei tu, un’abbondanza naturale.
(E questo rileggilo che fa bene come l’Omega tre o altra qualsivoglia stronzata fecale).
Tu, che sei la mia donna più bella, che sei là fuori la più bella davvero.
In discoteca, in pizzeria, sul tavolo smaltato e su quello dorato, intorno al cenacolo, lungo il balcone, a Palazzo nuovo e in Città, fra le foglie che cadono al parco, in un negozio trendy, lungo la via, tu, solo tu, sei la più bella con le tue gambe e il tuo seno. I tuoi capelli e la schiena. Tu, con quei piedi, tu e i miei occhi non hanno da cercare alcun paragone. Ora soli si spingono nel buio che divide questa cucina dalla camera tua, un buio trafitto dal riflesso delle candele sul frigo e la maniglia smaltata, vanno giù nel nero e nella coperta, fino a spegnersi poco prima di arrivare con un soffio argentato alla tua testa.
Vorrei avere più coraggio di quello che ho. 
Sentirmi ferito ma riuscire ad alzare la testa per dirti che in fondo hai ragione. 
Lo farei solo con un abbraccio, lo lascerei scivolare al caldo, nel letto al tuo fianco, per dirti come ti sento e ti vedo – il mio battito a tempo. Ma sono figlio di poveri sentimenti che si tingono di ampie curvature di arancione e di giallo. E allora scrivo, e per come posso, ho due dita di sincerità e una che ti canta in bilico sulle ore che portano al prossimo mattino. Fondamentalmente, mia irrequietezza, ti amo.

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