cose che non mi appartengono

A un passo dal collasso, ernia ietale, troppi tortini di riso alla tavola familiare e vino bianco, a un passo dall’implosione torno a stendermi su queste lastre di bit made in china but disegnati in California, dove c’è sole e denaro e muscoli governatori. Gran culi, tra l’altro, o almeno così ci hanno sempre fatto credere, e viva Iddio – proprio lui! – credere è tutto.
Riaprendo per un momento alcuni strumenti di distruzione di massa quali skype o similar patacche, ho letto degli status, ovvero degli stimoli defecanti espressi attraverso le sopra lastre, da persone che conosco o meno, ma che in qualche modo sono a me connesse. Entusiaste, eh! Per ragioni che non mi appartengono.
La cena indiana che sta per essere preparata a casa propria.
La prossima partenza per il brasile.
Le mani giunte e un cavo per IPhone perso e ricercato, quindi.
“Ogni tanto mi risveglio e mi domando, ma in tutto questo – cosa c’entro io?” (N. Fabi).
Sono cose che non mi appartengono.
E non perchè, banalità, non sono da me in prima persona vissute. La conquista del palazzo d’hiver mi appartiene, che diamine, eccome. Sono cose che non mi appartengono, non sono nel mio universo di possibilità espressive, emozionali, punto. Ecco la questione: leggo e vedo universi paralleli, e neppur simili. Vere e proprie altre dimensioni coi loro gas e le loro stelle e tutte le possibili combinazioni chimiche, unite e non, collimano e collassano.
Sono lì a un passo a un occhio a un numero da me. Ma quanta distanza.
E quanta rabbia.
Inespressa, anche in queste parole, che assumono la stessa dimensione delle stesse contro le quali si riversano, argomentano e schiantano. Cioè, in breve, avrei bisogno di slacciarmi da questi universi di persone che si parlano addosso. Questo sito non lo legge nessuno e io sto benissimo proprio così.
Diamine.
Che contraddizione.
E’ precisamente sentire che c’è qualcosa che prude, che provoca un fastidio continuo e tenace, e sapere, essere consci, che quella cosa è la stessa cosa che produciamo ogni giorno – ma si disgiunge da noi. Intendiamoci: la merda del cane, o il suo bau, non sono il cane. Ecco: è il cane che odia la merda e la produce, io che odio questa persona che aspetta gente a cena e me lo fa sapere, e poi pubblico, defeco, dei miei bisogni.
Sono lacci.
A ventidue anni scrissi:
Nella carne ho nervi che fremono
muscoli tesi
fiumi di latte bollente
fili su fili al vento, fili di salice
che frustano l’aria,
nel sangue ho un giogo di lacci,
sono batterie e chitarre distorte,
traffico, code interminabili,
impiegate saccenti ignoranti,
donne che ti guardano con occhi di gatta
puttane.
Nel sangue rosso e grumoso vi sono
pietre aguzze- una spiaggia
di bianca sabbia,
nel mare un polipo assassino,
il computer impazzito,
gente che ti assilla dalla prima ora del giorno /
sento i muscoli fremere,
ho una gran voglia
di spaccare la faccia di gomma del mondo
e poi piangere, piangere,
annacquare il gelo
della mia spiaggia
esistenza.
Ne ho ventisei.
E così, “Ogni tanto mi risveglio e mi domando, ma in tutto questo – cosa c’entro io?” (N. Fabi).
Ho bisogno di una svolta. Lo dico solo questa volta.

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