windows lying down day

E’ il primo giorno, dopo tanti, che mi ritrovo a poter guardare fuori dalla finestra non per angoscia ma per piacere. Una collinetta con qualche ciuffo d’erba inasprito dal vento e un al di là con gli uccelli che passano a stormi, così felicemente neri, che non riesco a vedere. Il cielo è grigio, aria invernale. Ho in mano il passaporto, che non ricordo com’è che l’ho preso, e continuo a passarmi la sua copertina amaranto, ruvida, plastica burocratica, tra le dita. Lo apro e lo chiudo, senza guardarlo, per ricordarmi le vecchie e immaginarmi le nuove partenze. E nello scorrere delle fotografie del mio faccialibro mentale, quando passano una accanto all’altra e una sopra l’altra, dagli anni scorsi ai giorni messi dentro a qualche minuscolo cassetto appannato, passo anche di qua. Da questa stanza e dal mio letto sdraiato per terra, disfatto e rifatto a due passi dal bagno, dall’armadio, dal buco. A due passi da tutto quello che ho che si è compresso qui dentro. Esploso da una valigia.
Questa non è una città, il posto in cui sono. E non è neppure un vecchio villaggio di mare coi suoi uomini da piccoli lavori in attesa di farsi la barba e la morte. E’ solo un paese immaginario. Un posto chiuso in una bolla lontana dal mondo, su uno scaffale di un qualunque centro commerciale, messa in terza o quarta fila che nessuno la può vedere ma tutti sanno che c’è, che è lì, ed è pronta anche se un po’ irraggiungibile. In cui fluiscono i ragazzini della apple e del maglione in flanella, le ragazzine bionde e tutte incredibilmente con gli stessi occhi e le stesse labbra da hentai, con gli stivaletti col pelo bianco e i gonnellini. Calze spesse viola o marroni. Gente con una semplicità di vita quasi sconcertante, non loro, i ragazzini, ricchi e poveri adolescenti britannici, ma gli uomini e le donne conviti e convinte di fare un servizio al mondo con le loro ricerche tra la A e la B, tra il pelo e l’uovo, beating around the bush. Un’aia sconfinatissima. Dove si gira e si gira e ci si compiace, abbastanza lontani dal mondo da non dare fastidio, e da continuare a risplendere come carta patinata. Porca puttana. Ma di quelle proprio luride, di quelle da bordello di Ankara. Che ci entri passando il check in della polizia e poi passi accanto a queste signore che ti aspettano sulla porta, in una piccola cittadella dai muri scrostati e dall’evidente sifilide, puttana con le vene varicose e il mondo sfiancato dentro di sè. Forse una di loro capirebbe. L’inutilità latente di una massa di parole scollegate da tutto e da tutti, un fuoco fatuo di cui si parla e che nessuno ha mai visto. Poche eccezioni, pochissime. Solo un gran rumore e un’eccitazione di fondo che finiranno un giorno sommesse come un peto lasciato andare, tra il culo e la sedia imbottita, caldo, nel silenzio generale.
Passo un occhio veloce sul nuovo lavoro da fare, che è lì accumulato sulla scrivania. Deglutisco un sorso di the dalla tazza coi fiori e incrocio le gambe. Guardo ancora fuori da questa finestra che non riesco ad aprire. Al di là del vetro spesso, forse la stessa emozione di vedere qualcuno uscire di casa al tramonto coi contrasti fortissimi del grigio e del nero, coi pensieri a districarsi tra un lampione e l’altro, come lunghi fili prima di prendere il volo. Forse, e io continuo a sperarci. A lavorarci. Pronto presto a partire, con una voglia di andare proprio al centro al mezzo all’interno del bush, nella sua profondità così odorosa e felicemente nera. Per lasciare ad altri la gioia di girarci ancora, e ancora, intorno.

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